In questi tgiorni afosi di una torrida estate appena cominciata, chi riesce ad attraversare le assolate e bollenti strade dell’Olimpico può visitare al MAXXI una mostra di architettura molto importante per chi si interessa di architettura contemporanea.
Ad un anno dalla scomparsa del più famoso architetto iraniano di cittadinanza inglese, il MAXXI dedica a Zaha Hadid la prima retrospettiva, che in Italia segue quella che si è conclusa il novembre scorso a Venezia, promossa dalla Fondazione Berengo in concomitanza con la XV Biennale di Architettura.
Da noi pressoché sconosciuta, Zaha Hadid divenne un tormentone per quanto erano ricorrenti le critiche al museo da lei progettato per la capitale in ricorrenza del giubileo, il MAXXI per l’appunto, che in questi giorni la vede ricordata nelle sue sale per le tante opere fatte nel mondo ed in particolare in Italia proprio dopo quelle incessanti critiche, che paradossalmente le aprirono le porte del successo di casa nostra, da cui il titolo della mostra L’Italia di Zaha Hadid.
Mi piace ricordarla così perché avevamo una città nel pieno del torpore costruttivo, ancorata e imbalsamata nel riuso e nella riqualificazione di vecchi edifici con una serie di restauri che restituivano l’esistente più o meno tale e quale era, forse perché condizionati pesantemente da una serie di divieti paesaggistici dei Beni Culturali che poco lasciavano sperare in un cambiamento della città. Uno tra tutti, il restauro del S. Michele, mega - sede nazionale dei Beni Culturali lunga quasi un chilometro tra Porta Portese e lungotevere di Testaccio, resterà il baluardo più vistoso di tale concezione.
Alla fine degli anni ‘90 si barattò il Giubileo come rilancio turistico e risistemazione della città proprio ad opera di una sinistra che ideologicamente aveva sempre accusato il Vaticano di usare la fede come “oppio dei popoli” per accaparrare lo “sterco del diavolo”: così, come la storia insegna, quando i due contendenti agiscono d’ accordo i risultati sono ragguardevoli.
Senza dilungarsi troppo su quel periodo che vedeva nell’amministrazione di Veltroni una neo- monumentalizzazione della città, mi piace ricordare che uno tra i dibattiti più accesi fu proprio quello del MAXXI perché era considerato il monumento più strano di tutti.
Una stranezza aliena che Zaha Hadid ha sempre coltivato e sempre più estremizzato sino a proporre forme che impattano fortemente al punto di stravolgere la funzione del manufatto architettonico. Quello che noi riscontriamo al MAXXI è che il contenitore, l’edificio, plagia il contenuto, cioè le opere d’arte che sembrano scomparire sotto la forza dell’architettura che li ospita. Ricorrente problema delle realizzazioni delle archistar, personalismo professionale che causa uno straniamento che ambiguamente si riscontra di fronte a tali opere, al punto da tradire la vera ragione di quello che il visitatore ha sotto gli occhi. Strano che di tutto questo che qui ho appena accennato nella mostra non ci sia traccia, eppure è il motivo del successo che ha avuto Zaha Hadid, nella storia della città e delle amministrazioni di sinistra, del ruolo del museo e dell’opera architettonica. Non penso che siano cose così banali da dover essere ignorate.
Mi viene in mente La Cecla che raccontava di Renzo Piano che prima di costruire faceva un’ indagine sul territorio per saggiare le esigenze dei residenti che avrebbero avuto a che fare con la nuova costruzione, una ricerca di connotati antropologici che per l’architettura è imprescindibile, tutte valutazioni su cui per vicinanza di idee sono concordi gli stessi curatori - come la stessa Melandri - i quali alla bisogna peraltro le dimenticano proponendo mostre come se fossero elementi depositati ai lati di un percorso alla mercé di valutazioni arbitrarie. Un sistema espositivo chiamato wall che è forse il caso di essere ripensato.
Non c’è dubbio che si ha a che fare con un grande architetto, il cui studio, che pullulava di studenti, ha prodotto una quantità di opere impressionanti, vera e propria “fabbrica” che ha investito contemporaneamente tutte le parti del globo con progetti che conquistavano l’attenzione mondiale.
In questo senso il wall restituisce appieno il senso di tale sistema di produzione progettuale: venti metri di video che proiettano simultaneamente i progetti di Zaha Hadid nel mondo e le foto di Helene Binet che le ha fotografati, evidenziando il legame dell’architetto iraniano con il suprematismo russo. Malevich’sTektonic (2015) e Metropolis (2014) sono disegni di ricerche che Zaha Hadid ha condotto sin dalla tesi di laurea (1977 al A.A. di Londra) che aveva proprio nelle avanguardie russe il suo riferimento principale.
Tra i tanti progetti esposti nella mostra spiccano per importanza, oltre al museo MAXXI di Roma (1999/2010), la stazione dei Vigili del Fuoco del museo Vitra (1991/1993) e il padiglione LF One a Weil amRhein, in Germania, l’ampliamento del Museo Ordrupgaard di Copenhagen (2001/2005), il Rosenthal Center for Contemporary Arts di Cincinnati (1998/2003), il Phaeno Science Center di Wolfsburg. Il successo italiano segue con la Stazione marittima di Salerno (2000), il masterplan e la torre del progetto City Life presso la Fiera di Milano (2004), il Messner Mountain Museum a Plan de Corones (2015): se si notano le date salta agli occhi che proprio il rumore delle polemiche sul MAXXI le hanno dato il necessario consenso, insieme al grande riconoscimento avuto con il premio, come primo architetto donna, del Pritzker Architecture Prize nel 2004.
Interessanti anche i divani per B&B Italia e Cassina, le sedie, le panche, i tavoli per Sawaya & Moroni; le lampade per Slamp, i vasi e i centrotavola per Alessi, le librerie componibili per Magis, l’alta gioielleria (con l’anello B.zero1) e la moda (con l’esclusiva borsa disegnata per un evento charity di Fendi).
Galleria 5
a cura di Margherita Guccione, Woody Yao
In collaborazione con Zaha Hadid Design, Zaha HadidArchitects e la Fondazione Zaha Hadid.
23 giugno 2017 - 14 gennaio 2018
MAXXI, Roma
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