di Adriana Dragoni
Esistono dei luoghi particolari, come dei mondi a parte. Si accede a uno di questi, a Napoli, da una strada posta a metà collina. La strada era chiamata Maria Teresa ma poi la chiamarono Vittorio Emanuele Secondo, dal nome del re di Piemonte, che scelse di chiamarsi Secondo anche quando diventò primo re d'Italia. E sulla scelta gli storici hanno chiosato abbastanza.
Su questa strada c'è un cancello. Lo si oltrepassa: pochi gradini e un sentiero in salita, che via via diventa sempre più impervio e sale, sale tra file di ulivi e filari di viti. Silenzio. Uno strano improbabile silenzio in una città come Napoli. Non c'è nessuno. Siamo entrati preceduti da un gruppetto di persone ma sono scomparse. Il sentiero ogni tanto si biforca. Vaghiamo sulla collina di San Martino, cercando l'albero della cuccagna. Deve essere da qualche parte. Ci sta. Lassù in cima. In uno spiazzo, su un'alta piattaforma rettangolare.
Se si pensa all'albero della cuccagna, ci si aspetta una sorta di trave bene addobbata, in antico anche riccamente decorata, ma scivolosa, sulla quale, con coraggio e determinazione, a costo di rompersi il collo e qualche volta è successo, si arrampicavano i poveri per acchiappare prosciutti o caciocavalli. Errore. Quest'albero di San Martino non gli somiglia.
Di fronte a noi, c'è un enorme coso, un altissimo raspo, in lingua napoletana uno “streppone”, cioè un tralcio secco, puntuto e senza frutti, con dei ciuffi di pianta malata in cima. La base di questo strano oggetto è rivestita da grandi fette cascanti di lardo che spargono il loro grasso sulla piattaforma, mentre nugoli di insetti le girano intorno, cibandosene, ubriachi da tanta abbondanza. Grasso che cola.
Il commento ufficiale racconta di questo grasso ricavato da cadaveri di animali erbivori che poi ritorna al mondo vegetale, secondo un ciclo naturale. Ma, guardando lo strano oggetto, non si può fare a meno di immaginarlo come una cuccagna, piena, grassa, dalla struttura ormai in disfacimento, una cuccagna di cui si cibano degli esseri infimi, gli insetti. E vien facile pensare che sia simbolo della nostra attuale società, ormai in disfacimento, della cui ricchezza inventiva di oggetti, di manufatti e di arte stanno per cibarsi esseri che la distruggeranno.
Forse non è questa l'intenzione dell'artista, il “messaggio”, si dice così in gergo, che lui ha voluto dare. Ma è anche vero che l'opera figurativa può esprimere a volte qualcosa che esula dalla volontà programmatica dell'autore, qualcosa di cui lui stesso non è consapevole. E questo è molto interessante. E anche bello. Si parla, anche, nella critica d'arte, della necessaria complicità dello spettatore nella decifrazione dell'opera figurativa. Ma in questo caso non c'è un indebito apporto. Si guarda quello che si vede, si descrive quello ce c'è. E quello che c'è in questo albero è fortemente drammatico.
D'altra parte quest'oggetto singolare ha una forza stimolante per l'immaginazione e si può anche immaginarlo in ambiente dionisiaco quale un tirso di enorme grandezza, cioè come quella sorta di stendardo che era portato in processione in onore del dio del vino e dell'amore carnale.
Nello spiazzo dove ci troviamo sentiamo delle voci. Voci vicine. Vengono da una terrazza poco più in alto. Vi giungiamo. E vediamo un vasto pergolato carico di grappoli d'uva. E, sotto il pergolato, dei lunghi tavoli di rustico legno, delle tavolate.
Vi si mangiano cozze e si beve vino del luogo. Nettare. Sono le cinque del pomeriggio, un orario non molto adatto per mangiare cozze e bere vino. Ma l'invito di Peppe Morra, l'anfitrione, è irresistibile. Stiamo al suo tavolo, poi a quello di Achille Bonito Oliva, il curatore della mostra, poi a quello di Mimmo Iodice, il grande fotografo. A gustare poi, via via, un gulash vegetariano, una leccornia di sapori, con pomodoro del luogo, pasta e cavoli, pasta e piselli, pasta e zucca (la più votata è quella con i cavoli) e poi peperoni, e salsicce con patate e ancora ancora. Vediamo altri visi noti di critici e di artisti. Vi sono anche tanti giovani. Mentre la luce rossastra del tramonto tinge di rosa e rende vivi i colori dei commensali: una sorta di scena alla Pierre-Auguste Renoir.
Nel frattempo, c'è stato un intermezzo: Paul Renner, l'artista, salito di slancio sulla piattaforma dove è sistemato l'albero, ha fatto un breve discorso, sottolineandolo con ampi gesti delle braccia, dicendo pressappoco così: lui, austriaco, non è austroungarico (qui confonde un po' la storia), quindi ama Napoli, città della tolleranza, della trasgressione e della cuccagna e ha invitato i presenti ad applaudirla.
C'è anche la RAI, per intervistare Achille Bonito Oliva, che, avendo una buona esperienza nel campo, illustra efficacemente il progetto di cui è curatore, quaranta alberi della cuccagna in tutta Italia, cinque in Campania, alcuni con il sostegno della Fondazione Morra. ABO si confessa affetto da protagonismo, come Peppe Morra, che però, dice, lo mostra di meno. Amano entrambi più dell'arte gli artisti, il flusso delle idee, fluido come la vita. E, sottobraccio, i due amici, Achille e Peppe, vanno insieme a parlare tra loro passeggiando nei campi.
In quanto a noi, quando è l'ora, lasciamo la compagnia e, imprudentemente, scendiamo da soli per l'impervio sentiero, dove si scivola sul terreno e s'incespica sui ciottoli. Si è fatta sera. E' buio pesto. Ci guida la lucetta di un cellulare. Ma a un tratto la lucetta si spegne. Sperduti nel buio. Perdiamo l'orientamento. Vagheremo tutta la notte nell'oscurità della collina? Torniamo indietro, rimproverandoci della nostra imprudenza, e ben presto troviamo una guida. Provvidenziale. Usciamo sul corso vitt. Eman II, ex corso regina Maria Teresa di Borbone.
E' stata una bellissima serata. Carica di emozioni.
(foto di Amedeo Benestante)
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L'albero della cuccagna- Nutrimento dell'Arte
a cura di Achille Bonito Oliva
con il patrocinio di Expo 2015
il matronato del Madre
e la presentazione (30 settembre),
promozione e organizzazione della Fondazione Morra.
1 ottobre / 30 novembre
su prenotazione tel 081 5641655
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