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22/11/24 ore

Kathryn Andrews e Alex Israel alla Gagosian Gallery


  • Giovanni Lauricella

Nell'arte contemporanea difficilmente troviamo sufficiente chiarezza e linearità, e rappresentazioni in senso esplicito, in quanto sembra che il significato nascosto, la cripticità, il disorientamento dello spettatore, siano il vero fine verso cui tutto converge, ivi compreso il linguaggio, indipendentemente dagli stili o correnti che si vogliono prendere in considerazione.

 

Ogni qual volta, insomma, si entra in una mostra bisogna armarsi di un intuito alla Sherlock Holmes o alla Hercule Poirot per decrittare i segnali lasciati dall’artista, che metterebbero in imbarazzo l’acume investigativo proprio dei grandi autori dei polizieschi inglesi.

 

A volte, poi, capita tutto il contrario, non perché siamo di fronte ad un’opera figurativa che si esprime in senso classico al punto che si spiega da sé, ma perché, come in questo caso, ci confrontiamo con una installazione di arte concettuale che si presenta per quello che è.

 

Oggetti-soggetti, dunque, che hanno un particolare significato per Kathryn Andrews e Alex Israel  in quanto, nelle parole di Francesca Martinotti: “Residenti a Los Angeles, si confrontano con l’industria cinematografica e la cultura mediatica tipiche del luogo. Minando la ‘catena alimentare’ dello show business, indagano e confondono il sottile confine che separa il ‘talento’ dalla ‘materia prima’, ricontestualizzando e ripresentando oggetti prodotti in serie le cui caratteristiche auratiche e formali sono spesso trascurate”.

 

Siamo in pratica di fronte ad una peculiare espressione dell’arte readymade nel senso duchampiano, dove, cioè l’opera d’arte è rappresentata da un oggetto di uso comune prefabbricato, cui l’atto mentale dell’artista conferisce il valore artistico.

 

 Il readymade di questa mostra peraltro supera il concetto degli objets trouvés per andare verso quello di objets loués, o per meglio dire, visto che parliamo di due artisti statunitensi, di rented objects.

                                                                                                                                                                 In altri termini, due sfacciate provocazioni che vanno verso il mondo dell'arte e verso la ridondante cultura mediatica, tematica affrontata però all'americana, nel senso che loro, da veri yankee, l’arte manco si sprecano ad aspettare di “trovarla”, come diceva Marcel Duchamp, ma la pensano e la fanno, cioè l'affittano e la espongono.

 

Strano? Si, molto strano, anche se non molto, perché si tratta di artisti americani in una galleria americana, anche se a Roma. Dico questo perché il costume della schiettezza non riguarda noi latini, che di bizantinismi siamo pregni e in questa logica ben radicati.

 

Essendo questo parziale aspetto che ho fin qui evidenziato uno dei contenuti del quale la manifestazione si fa forte, mi trovo ad essere veicolo della provocazione che rasenta il bizzarro e il  paradosso, situazioni che bene hanno reso già in precedenti lavori Kathryn Andrews e Alex Israel.

 

Una mostra del genere, se fosse fatta da noi, dato l'azzardo, sarebbe costretta ad avere l'imprimatur di un grande critico, ad esempio Achille Bonito Oliva o un Germano Celant o un Renato Barilli, e a ruota storici dell'arte contemporanea, professori e galleristi, con una stampa mirata, tutti pronti a far fuoco su chi si permettesse di biasimare, con truppe cammellate al seguito, e se poi l'avesse proposta Vittorio Sgarbi (cosa del resto impossibile) ci sarebbe stata la rivolta generale con esiti imprevedibili.

 

Ma ancora più grave sarebbe stato che se una mostra del genere l’avesse fatta un artista poco importante avrebbe scatenato il disprezzo e il dileggio di tutto il sistema dell’arte, condanna che questo ipotetico artista avrebbe pagato a vita con un isolamento che gli sarebbe costato molto caro. Nel nostro paludato ambiente dell'arte se non è “l'uomo del Monte” (come dice la propaganda) a dire di si, non si fa niente.

 

Forse – artisticamente parlando - ci sarà di meglio degli oggetti affittati in uno studio cinematografico americano, ma rompere ogni tanto la noia di tanta arte prodotta negli studi/fabbrica delle solite artistar dove degli artisti/operai preparano le opere che comunemente vediamo nelle gallerie e nei  musei, fa bene e ridimensiona molta énfasi culturale dell’ arte.

 

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Kathryn Andrews e Alex Israel.

Gagosian Gallery

Roma

Giovedì, 16 gennaio–sabato, 15 marzo 2014

 

 


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