“Testa alta e avanti”, di Gaia Tortora, è uno di quei libri che ti lasciano il segno. Con straordinaria semplicità e tanto coraggio ha trovato un modo originale e raffinato di raccontare e raccontarsi riuscendo a trasmettere un naturale senso di immedesimazione.
Anche se si legge tutto d’un fiato, per la immediatezza della narrazione, ogni capitolo offre numerosi spunti di riflessione. Dalla ragazzina quattordicenne all’affermata giornalista di oggi, il viaggio di Gaia, come la vita di ognuno, è fatto a tappe.
Ma quel viaggio l’ha portata ad affrontare degli ostacoli del tutto inaspettati. Veri e propri incubi nei quali doveva trovare il coraggio di resistere, darsi forza e dare forza. La velocità con la quale il libro scorre è figlia dell’incedere coerente e lineare della narrazione. Confesso che dopo una prima lettura sono voluto ritornare su alcuni brani – con tanto di sottolineature – per l’intensità emotiva che mi hanno trasmesso.
Forse il mio vissuto quotidiano nelle aule di giustizia avrà avuto un peso nella facilità con la quale mi sono sintonizzato sulle frequenze emozionali descritte. Anche perché, l’altra metà del cielo che si illumina fuori dalla celebrazione del processo è una realtà composita ma attraversata da una sofferenza che non mi ha mai lasciato indifferente.
Le macerie che un’accusa ingiusta e la privazione della libertà possono produrre sono una dimensione dell’angoscia, del dolore, della sofferenza, difficili da spiegare fino in fondo. Che attraversano la famiglia e gli affetti in modo devastante. Il talento dell’Autrice mi ha guidato nella lettura, declinando nella descrizione raffinata di concetti intimistici di straordinaria profondità.
Dalla vulnerabilità vissuta non in chiave di debolezza, alla capacità di ascoltare il proprio intimo vincendo le paure e riuscendo a trasformare un’esperienza di dolore in una testimonianza. Una testimonianza che si pone al centro di una riflessione profonda sulla necessità di adoperarsi per quanto possibile per scongiurare i tormenti dell’ingiustizia.
Ed ecco che in ogni tempo occorre lavorare sugli antidoti culturali e metodologici più appropriati. Antidoti che siano in grado di seguire il ritmo del tempo e farci nuotare controcorrente. Soprattutto nel rapporto talvolta inquinato ed inquinante tra il fatto giudiziario e la sua rappresentazione mediatica.
Questa tensione culturale viene vissuta come frutto di una scelta consapevole e coraggiosa, non alla stregua di una mera testimonianza in chiave di autoreferenzialità. Un messaggio che arriva chiaro al lettore e che vuole laicamente superare le “etichette”, lavorando sull’evoluzione della sensibilità e dell’etica professionale.
Un’evoluzione che rende più civile un Paese e che non abdica mai alla necessità di porre sempre al centro il rispetto della dignità dell’uomo. Soprattutto guardando al mondo dell’informazione, la narrativa delle indagini e troppo spesso prigioniera di teoremi e ricostruzioni unilaterali. E quando quelle ricostruzioni si dimostrano inconsistenti, perché dai teoremi ci si sposta sul piano della dimostrazione, il danno è ormai divenuto irreparabile ed anche una completa assoluzione avrà un sapore, per certi versi, ancora più amaro.
Non sono più rimarginabili le ferite nelle relazioni familiari, lavorative e sociali. Indietro non si torna. “Testa alta, e avanti” (Mondadori Editore) è un libro che si iscrive perfettamente in un percorso di crescita della sensibilità a tutela dei diritti fondamentali di ogni accusato, spesso calpestati in nome di presunte verità esibite come certezze dal mondo dell’informazione.
Ipotesi investigative troppo spesso contrabbandate per dogmi con tutta la grancassa mediatica che le accompagna in modo acritico e trionfalistico. La gogna mediatica è servita. Possono cambiare le modalità con le quali si agisce, dalla piazza affollata ed eccitata in attesa degli “untori” da giustiziare (di manzoniana memoria), a quella virtuale, pronta a sfornare milioni di commenti di esecrazione via tweet per il presunto colpevole, ma i meccanismi restano sempre gli stessi.
Condividere un’esperienza dolorosa come quella raccontata da Gaia Tortora non è solo un giusto omaggio alla Verità di cui andare “a testa alta” ma la voglia di dotarsi degli anticorpi necessari, nella coscienza individuale e collettiva, per far in modo che quanto accaduto non abbia a ripetersi.
E qualcosa possiamo farla tutti, in questa direzione, a cominciare dall’atteggiamento che assumiamo ascoltando o leggendo notizie di cronaca giudiziaria, rispetto alle quali pratichiamo forse solo a parole la presunzione di non colpevolezza nei confronti dell’accusato.
In ogni incolpato dobbiamo saper guardare al presunto innocente, come ci raccomanda la Costituzione, evitando di far assurgere una mera ipotesi investigativa al rango di sentenza inappellabile.
Questa visone prospettica, che parte dalla disamina di una storia drammaticamente vera, è un patrimonio valoriale che le riflessioni contenute nel libro ci consegnano con straordinaria immediatezza, coerenza e linearità.
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