Nonostante abbia cominciato ad essere utilizzato nel ‘700 dai cattolici irlandesi e, in seguito, durante la Rivoluzione francese, il concetto di emancipazione si sviluppa fondamentalmente nel XIX secolo. Spiegandone la genesi e il suo significato, Bruno Karsenti, “directeur d’études all’École des Hautes Études en Sciences Sociales” di Parigi, offre in poche pagine una riflessione sulla condizione dell’antisemitismo attuale in Europa in “L’ebreo emancipato” pubblicato dalle Edizioni EDB per la collana Lampi.
È nel 1789, infatti, che gli ebrei, per la prima volta in Europa, dopo secoli di vessazioni, sono riconosciuti come individui, al pari di tutti gli altri cittadini. Contemporaneamente, però, vengono loro negati i diritti come Nazione, privandoli così di un’espressione collettiva ed identitaria.
Questa campagna di difesa/attacco o, se vogliamo, di riconoscimento e contemporanea parallela privazione non elimina il problema dell’odio verso la minoranza, ma anzi lo accentua e lo trasforma, causando, di conseguenza, la nascita di una nuova forma di razzismo: dall’antigiudaismo si comincia a passare all’antisemitismo.
Naturalmente non è un processo netto e lineare, innanzi tutto perché: “uno Stato costituzionale repubblicano non abolisce i gruppi d’appartenenza. Solo uno Stato totalitario pretende realmente questo genere di abolizione. La Repubblica, anche nelle sue versioni più intransigenti, non ha mai veramente cercato di non avere di fronte a sé che degli individui separati dai loro collettivi d’appartenenza. L’operazione repubblicana è più sottile e, in un certo senso, più esigente”.
Un altro motivo è che gli stessi esponenti di questa teoria hanno modificato le loro idee nel corso del tempo, come per esempio L’Abbé Grégoire, “membro della nuova Assemblea nazionale tra le fila del Terzo Stato” e che “aveva vinto nel 1787 il concorso dell’Accademia di Metz rispondendo alla domanda Vi sono dei mezzi per rendere gli ebrei più utili e più felici?”. Egli vi risponde esprimendo tutti i suoi pregiudizi e non considerando affatto la questione dell’emancipazione, poiché “intende migliorare la loro sorte, ma senza pretendere l’impossibile”.
Due anni più tardi, il suo punto di vista si trasforma radicalmente: “questa volta, è la nazione che si trova in una situazione di rigenerazione. Uno a uno, gli ebrei sono incurabili, a meno che non li si estirpi dalla loro condizione con la forza, e addirittura ciò non è possibile se non li si prenda nella loro prima giovinezza e non li si sradichi completamente. (…) La nazione non conosce degenerati, perché la rigenerazione collettiva ha cancellato tale condizione primaria. (…) L’emancipazione individuale può acquisire senso perché l’emancipazione collettiva ha avuto luogo e la sostiene”.
In quegli anni nasce, dunque, la “questione ebraica” o il “problema ebraico”, a seconda di chi e come lo affronta. Le due espressioni sono state infatti adottate da numerosi filosofi, politologi, sociologi, psicologi e storici: da Bruno Bauer a Marx, da Giovanni Spadolini a Giorgio Israel. Apparentemente simili, sono in realtà quasi l’opposto e questo è un paradosso da esaminare ed analizzare “da vicino”.
Resta il fatto che la questione ebraica dovrebbe essere una “questione comunitaria” e non si dovrebbe essere riluttanti “a farne una questione di filosofia politica generale”. L’imbarazzo che suscita quando se ne parla è uno dei sintomi di una delle forme dell’antisemitismo moderno, insieme alla concezione distorta per cui “dietro ad ogni individuo ci sia un gruppo invisibile”.
L’altro elemento è più esplicito e di una violenza “specifica, per certi aspetti inaudita”: quello delle aggressioni e degli attentati: “quale altra comunità in Europa vede i propri bambini correre il rischio di essere uccisi a bruciapelo perché ebrei? - si chiede l’autore - ed è una violenza che, oltre alle vittime che provoca, oltre alla sofferenza che causa nei suoi bersagli e all’insicurezza che genera”, spinge gli ebrei ad andarsene (e qui il pensiero del lettore corre inevitabilmente alla Francia, come esempio emblematico).
Karsenti, infine, non offre soluzioni, ma invita a riflettere, a sforzarci di comprendere e a ricominciare a parlare, appunto, del processo di emancipazione e di cosa ne ha bloccato l’impulso.
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