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17/11/24 ore

Parlare da soli, di Andres Neuman



di Maurizio Musu

 

Parlare da soli fu pubblicato per la prima volta nel 2013 dalla casa editrice Ponte alle Grazie, anni dopo la ristampa si veste di nuovo grazie alla Einaudi. Un passaggio di consegne non insolito né inedito nel mondo dell’editoria, dietro ci sono mille ragioni e mille motivi che spingono un autore a cambiare veste del proprio libro; altre volte ci sono scoperte che spingono una casa editrice ad interessarsi ad un autore.

 

Allo stesso modo un’intuizione, o un puro caso, spingono il lettore a scegliere un libro più di un altro, ciò permette a chi scrive di esprimere il pensiero che sia lecito dire che “Parlare da soli”, dell’argentino Andrès Neuman, rappresenti uno di quei casi letterari che spingono casa editrice e lettore verso un’unica direzione, il piacere della scoperta

 

Condividere, attraverso le parole del romanzo, la trama – originale nel suo dipanarsi, meno nel suo tema, la malattia e le conseguenze che essa comporta – fa sì che ciascuno di noi si senta partecipe della vicenda narrata. Una partecipazione che investe ciascuno nei ruoli che la vita reale presenta.

 

La grandezza della scrittura di Neuman sta proprio nell’affrontare il suddetto tema con la leggerezza di porre i tre protagonisti, Elena, Mario, Lito, non oltre un vissuto reale e concreto, ma ben inscritto nella realtà del quotidiano; ciò è rappresentato da una scrittura elegante, asciutta, che pagina dopo pagina non lascia scampo al lettore di voler sapere e conoscere.

 

Il lettore vuole e deve sapere come le tre vicende si dipanano nella trama, benché il finale sia ben chiaro fin dalle prime pagine; ma Neuman entra dentro quel mondo intimo del singolo, facendo di esso un unicum ed allo stesso tempo parte di un insieme.

 

La famiglia costituisce un nucleo, ma nel suo interno ognuno di essi è rappresentato per quel che è, Elena come donna/moglie/madre; Mario come uomo/marito/padre; Lito, come uomo/adolescente/figlio; ciascuno di volta in volta intimo a se stesso e in rapporto con l'atro in una rappresentazione scenica che va ben oltre l’immagine e somiglianza dei novelli eroi, tanto meno degli ultimi, degli umiliati e offesi.

 

Neuman racconta di persone comuni, di una famiglia comune, del vicino di casa, di noi! 

 

In questa vicenda la trama non vuole affrancarsi dalla realtà, non lo potrebbe fare e forse non le è consentito, perché lo sforzo profondo del racconto è quello di non andare oltre il reale, ma di entrare in quelle pieghe che il singolo, come tale, vive, sente, compartecipa.

 

Non c’è volontà di costruire una tema fuori dalle righe, “parlare da soli” è il racconto dello straordinario (la malattia)/ordinario (il quotidiano), inseriti nella dinamica, tutta umana, dei rapporti fra persone, ciascuna presa per quello che è, Elena, in quanto donna, Mario in quanto uomo, Lito in quanto adolescente.

 

C’è uno sguardo umano Che come una telecamera individuale entra nelle dinamiche di rapporto dei tre personaggi e che vede in ciascuno un racconto dell’intimo e del personale che ben si coniuga nella vicenda corale.

 

Ciascuno, appunto, come individuo scevro da ruolo o etichetta, perché Elena, Mario, Lito, sono anche moglie/madre, marito/padre, figlio, ma Neuman ci consegna tre persone, ben oltre la scacchiera delle etichette sociali.

 

Un ulteriore merito e plauso nei confronti dello scrittore argentino.

 

Non c’è retorica nella scrittura, tanto meno nei tre protagonisti, perché come in ogni rapporto che si rispetti - compresa la famiglia - ci sono le varianti del percepito, del sentito, del desiderato che fanno del singolare un plurale ma questo non deve lasciare spazio ad alcuna forma di prosaica visione dell’unità famigliare a tutti i costi.

 

Si tenta, ma non sempre si riesce, ed è in questa cura del dettaglio che il lettore si sente personaggio attivo e non più, e non solo, spettatore di questo dramma messo in scena.

 

Ci sono le cadute, rovinose, fragorose, profonde che vanno a minare l’identità del singolo ma che non sporcano gli altri se non il sé stesso che compie l’azione. Non ci si chiede come l’altro possa percepire e comprendere la caduta, perché quel singolo necessita di partecipare alla propria caduta, e nel farlo, l’altro rimane altro da sé; non si ha la forza, la determinazione, la capacità interna, tanto meno la volontà di condividere la caduta. Semplicemente, si è legittimati ad essere singolari senza plurale.

 

Ma i rapporti, comunque, sentono della caduta, tanto che la paura della perdita o la vittoria del ritrovarsi dinamizzano ulteriormente i rapporti, creando nuove dinamiche per il singolo e per il rapporto.

 

In questo dinamismo dei rapporti la partecipazione del lettore è totale, ora capisci le scelte di uno, ora te ne senti lontano, rabbia e delusione faranno parte della lettura. Perché chi legge nel suo inconscio risponde alla domanda, mai espressa, di immedesimazione con il personaggio.

 

Cosa farei io al suo posto?

 

Esemplari sono le dicotomie messe in scena, per un rapporto uomo/donna incrinato fa da contraltare un rapporto padre/figlio ritrovato e rinsaldato; per una donna che vuole sentirsi ancora desiderata e amata c’è un uomo che vuole ancora provare l’emozione di essere vivo e vitale; senza dimenticare gioie e drammi di un adolescente di dieci anni che necessita di sentirsi tale e che allo stesso tempo comprende la gravità della situazione e che nonostante ciò non lascia spazio alla possibilità dell’attesa.

 

Tutto è vissuto, sentito con la doppia consapevolezza di essere protagonista/lettore e allo stesso tempo un singolare/plurale.

 

In questo sgretolarsi dal secolare vincolo profetico del super uomo e del Dio protettore/onnipotente che contraddistinguono da lungo tempo l’agire umano, emerge, con voce forte e vitale, la grande bellezza dell’identità umana e del suo mondo interno sotteso alle sole emozioni.

 

Il risultato è un romanzo profondamente perturbante, crudele e pietoso allo stesso tempo, che indaga in un'originale forma di racconto l'eterna connessione/lotta della vita e della morte.

 

 


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