Un eclettismo che spazia dall’ironia e il sarcasmo alla psicopatologia musicologica, ricco di considerazioni di vario genere, è alla base del (secondo) “Manuale di sopravvivenza per il musicista classico” di Alessandro Zignani, pubblicato dalla Zecchini Editore.
Lo scrittore, che è anche musicologo, drammaturgo, germanista e sceneggiatore sia teatrale che cinematografico, ci offre una satira irriverente e dissacrante che prende di mira tutto e tutti senza alcuna distinzione o remora, giocando spesso con le parole e con colte citazioni.
Così, personaggi inventati, che tentano di studiare o seguire le orme di famosi compositori, o realmente esistiti ma il cui nome viene sostituito con una sorta di sinonimo - Bruno Zecca, ad esempio, intervista nella sua trasmissione “Stipite a stipite” il famoso direttore d’orchestra Ricccardo Zitti, oppure un intero capitolo è dedicato al “pianista angelico” Gilberto Discenti – si alternano a valutazioni su artisti, stili e ritmi musicali e altro ancora, creando a volte scenari assurdi o paradossali, come il direttore d’orchestra e il compositore che sono la stessa persona, ma al momento dell’esecuzione il primo si offende perché il secondo non è in sala.
Oppure il capitolo dedicato ad uno storiografo e al “massimo profeta della prassi autentica” da cui sono tratti i seguenti stralci: “Scheissenberg e Urtext, dunque, riesumarono padre Sfaccimus Stramuort e questi trattò un accordo contrattuale tra Belzebù e gli studenti della classe d’archi, solo che gli strumenti risultarono così scadenti che il diavolo fece causa a tutti per ‘danno d’immagine’ (…) Dopo qualche settimana avevano costruito un discreto brigantino da arrembaggio, senza fori, chiavi e imboccatura. (…) I pianisti riassunsero in pochi mesi l’intera trafila storica dello strumento, senza sconti: ‘il fortepiano senza piano’ (una tastiera senza sordini), il ‘fortepiano col pianoforte piano’ (una doppia tastiera, ma con la seconda ancora difettosa), il ‘fortepiano col piano forte’ (per nevrastenici), il ‘fortepiano né piano né forte’ (una tastiera mal riuscita) e infine il pianoforte: la tastiera più difettosa di tutte; a quel punto tutti si convertivano all’ukulele, che è senza né piano né forte”.
L’autore sfata inoltre numerosi miti, elencandoli e commentandoli uno ad uno: “La musica è un linguaggio universale. E difatti noi comprendiamo e amiamo istintivamente i raga indiani, il gamelan giavanese e quella musica rituale che accompagna il teatro Nô giapponese: tutta roba che cantiamo sotto la doccia.” O anche: “La musica rende migliori.
A commento si vedano l’epistolario di Mozart (v.), la biografia di Beethoven (v.) e Wagner (v.) e la lista di quanti musicisti tedeschi si distinsero come ufficiali delle S.S. e brutali sterminatori di ebrei e minoranze varie”.
Zignani sbeffeggia non solo alcuni compositori (Rossini, per esempio, è il “maestro del riciclo” poiché “metteva le stesse Arie in Opere diverse” o Donizetti che scrisse “così tante Opere che una volta, recatosi a teatro dove si dava una sua Opera vecchia, non l’ha riconosciuta e si è autocitato in giudizio per plagio.”), ma anche le lingue: prendendosi ad esempio gioco dei traduttori automatici, egli mette in bocca, o meglio sulla punta della penna, di un fantomatico direttore e proprietario di un’orchestra in cerca di sponsorizzazioni per fare concerti in Italia e un salernitano squattrinato, rispettivamente un inglese e uno spagnolo maccheronici.
Perfino nei capitoli apparentemente più spiritosi e leggeri, tuttavia, Zignani lascia trasparire un senso di profonda e amara critica, ma vale anche la pena ricordare che nel libro non mancano nemmeno numerose considerazioni serie come quella sulla lirica russa che secondo l’autore è una terapia per l’Europa, o quelle sulle sinfonie di Beethoven.
Molti lettori non esperti probabilmente non riusciranno a cogliere tutte le profonde sfumature e anche una parte delle battute, ma in ogni caso potranno godere di quelle più semplici e alla portata di ognuno di cui è stata data qui una breve anticipazione.
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