“Se si passa sotto il Ponte di Rialto, dopo il Fondaco de’ Turchi e il mercato del pesce, e si dice al gondoliere: “A destra!” quello appare un po’ sorpreso e chiederà: “Dove?” Se però si insiste per andare a destra e si risale uno dei piccoli canali sporchi, si tratta con lui e si inveisce, attraverso calli pigiate e portici anneriti dal fumo si arriva in una piazza, vuota. Tutta questa premessa semplicemente perché è là che si svolge la mia storia.
Il signor Baum mi toccò lievemente il braccio:
– Mi perdoni: quale storia? (…)”
Così il poeta praghese Rainer Maria Rilke, descrisse il percorso per raggiungere uno dei luoghi che più lo affascinò durante i suoi numerosi viaggi in Italia: Venezia e in particolare il suo ghetto, quel luogo periferico, angusto e sovraffollato, ma anche un po’ magico, nel quale dal 1516 vennero assiepati, per ordine del Senato, tutti gli ebrei della città e che, sempre per legge, veniva chiuso tutte le sere.
Rilke gli dedicò appunto un racconto fra quelli pubblicati nel 1900 con il titolo: “Le storie del buon Dio” e che recentemente è stato riproposto dalle Edizioni Dehoniane in un libricino tascabile: “Una scena nel ghetto di Venezia”, accompagnato dal testo originale in tedesco e da una “Nota di lettura” di Riccardo Calimani.
Ambientato nel diciottesimo secolo, i personaggi principali sono il “vecchio Melchisedech” e “la nipote più piccola, Ester, stretta all’anziano nonno”, una fanciulla brava e buona, la cui vicenda viene narrata in prima persona da un viaggiatore in una conversazione con un notabile, “proprietario di case, capo del distretto, presidente onorario del corpo dei pompieri e molte altre cose...”.
A Venezia, gli edifici nel ghetto erano i più alti poiché l’area era ristretta dalle mura che lo circondavano e non c’era lo spazio fisico per accogliere la numerosa popolazione ivi rinchiusa che, “a dispetto di tanta miseria”, delle persecuzioni e delle vessazioni, “cresceva feconda”.
Il protagonista, ricco orefice e persona influente e rispettata per la sua saggezza “che ha molti figli e sette figlie, con tanti nipoti avuti dai figli e dalle figlie” è un po’ particolare e “nella bizzarria della vecchiaia” aveva proposto ai suoi concittadini e familiari di vivere “in quella che fosse stata al momento la più alta tra tutte le casette accatastate l’una sull’altra in innumerevoli piani”.
Ogni volta veniva accontentato, così, ogni quattro o sei mesi traslocava non senza fatica, seguito dalla nipotina, in una nuova baracca “al di sopra di tutto” le cui pietre “erano tanto leggere che il vento sembrava non accorgersi neanche di quelle pareti”. Finché un giorno dall’ultimo piano dell’edificio più alto egli riuscì a vedere il mare e alla gente che lo osservava da sotto sembrava che fosse un tutt’uno con il cielo.
Rilke, dunque, riesce a raccontare in una prosa piacevolmente scorrevole e sotto forma di breve fiaba, alcune delle vicende più drammatiche subite dagli ebrei della Serenissima (e che subirono anche i romani e tanti altri ebrei in molte città europee e del mondo islamico) incantando il lettore con la sua delicata poesia.
Una poesia capace di trasformare gli aspetti più bui e negativi in modo tale da poter raccontare “il fatto” anche ai bambini, i quali con la loro creativa ingenuità sapranno cogliere in ciò che non è esplicitamente espresso, ma che è facilmente (e tristemente) intuibile dagli adulti, un tocco di magico mistero.
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