Qualunque sostantivo è strettamente legato al suo significato, dunque attribuire un nome implica, in un certo qual modo, dare un senso. Come si può allora definire quello che è stato così tragicamente fuori dall’ordinario e dalla comprensione umana, come lo sterminio nazista?
Attualmente, almeno in Italia, parole come Shoah e Porajmos (termine ebraico il primo, romanì il secondo) sono entrate nel linguaggio comune, ma non è sempre stato così dalla fine della seconda guerra mondiale, né tantomeno sono ovunque in uso: “Oggi non solo sussistono denominazioni diverse in ciascun paese, ma accade anche che la terminologia vari da uno studioso all’altro a seconda dei contesti, scientifici o divulgativi, in cui appare”.
Così Anna Vera Sullam Calimani, introduce il suo volume “I nomi dello sterminio”, pubblicato dalla casa editrice Marietti, nel quale affronta i problemi legati alla definizione della tragedia.
Ad ogni termine è dedicato un capitolo, nel quale spiega la sua genesi, chi lo ha diffuso e soprattutto quali sono gli aspetti negativi o limitativi e quelli a favore.
La prima sezione riguarda il “hurban” o “khurbun” e altre numerose simili versioni, a seconda della grafia e della pronuncia. Proveniente dall’ebraico e in seguito trasposta anche nell’yiddish, è una parola biblica il cui significato è “distruzione” o “catastrofe” ed era già in uso per indicare di solito le distruzioni dei due Templi di Gerusalemme.
Fu adottata nell’immediato dopoguerra, ma non fu adoperata a lungo, per almeno tre motivazioni: perché estranea a chi non parlava uno dei suddetti idiomi; l’esperienza che indicava era completamente diversa dalle due precedenti; infine, era troppo legata al mondo ortodosso, un ambiente piccolo e ristretto, in cui la Bibbia è il centro e la base della propria visione storica e filosofica e dunque la sua adozione rischiava di isolare ulteriormente quel vissuto e quel gruppo come fu in passato.
Nello stesso capitolo viene citata l’espressione “pogrom permanente”, coniata nel 1941 dallo scrittore di lingua yiddish Jacob Lestchinsky e tesa a designare un “pogrom che non ha motivazioni economiche o politiche limitate ma che ha come fine la distruzione, l’eliminazione fisica dei cittadini ebrei”.
Seguono poi le analisi e le riflessioni su “Shoah”; “Universo concentrazionario, deportazione, lager”; “Genocidio”; “Soluzione finale” e su altre espressioni tipiche del linguaggio nazionalsocialista; “Olocausto”; “Auschwitz”.
Quale espressione, dunque, è più appropriata? L’autrice non fornisce risposte conclusive, ma prima di suggerire quella che è la sua preferenza (che, sottolinea, è naturalmente soggettiva), riporta le difficoltà e l’imbarazzo che molti studiosi hanno avuto di fronte a qualunque termine, poiché nessuno, finora, è riuscito a colmare il divario tra la lingua utilizzata e la realtà vissuta dalle vittime. In altri termini non è stata ancora trovata una locuzione che possa cogliere e trasmettere l’enorme entità dell’evento sia in termini assoluti che proporzionali, le peculiarità che lo rendono unico e l’annientamento morale e fisico di chi lo ha subìto.
La lingua è, inoltre, sempre in divenire, “legata alla società che la parla e della quale riflette i mutamenti storici, politici, intellettuali e sociali” ed è “soggetta a due forze contrastanti: la tendenza a coniare nuove parole e a modificare il significato di quelle preesistenti sotto la spinta delle novità storiche o tecnologiche, e l’inerzia che induce a conservare soprattutto i tratti sintattici e morfologici, ma anche il lessico, il quale subisce perciò modificazioni lentissime, sempre in ritardo con i fenomeni che le hanno provocate”.
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