di Silvia Lanzani
Luce e ombra, bellezza e inferno. È la Napoli della storia, quella che respira dal tufo giallo striato di dolori e si anima nelle belle e pensose pagine di Antonio Scoppettuolo, che porta all’attenzione del lettore Specchio napoletano. Storie di amore e di addii (prefazione di Franco Di Mare, Edizioni Lastaria, Roma, pp. 118, euro 13.90 www.lastaria.it). L’autore, giornalista di Rai 3 Lazio, cammina nei vicoli, sente storie, porta in bisaccia odori e parole di quel popolo che ha vinto il dolore e il colera con la forza di un sorriso e la speranza che cuce i giorni.
Nelle righe che impaginano i racconti (dedicati allo zio dell’autore, Pasquale Aldorasi, uomo che conosce il segreto del grano e del vento d’Irpinia), il narratore originario di Gesualdo, il paese del Principe dei Musici, ci porta nel ventre di Partenope, dove la vita brulica e il sangue è più forte della legge del destino.
“Noi pensiamo di conoscere il mondo – annota Scoppettuolo – ma quello vero di nasconde sempre, sta dietro portoni e serrande: è la che si consuma la vita che non ha bisogno di vestirsi a festa per presentarsi ma sta come la povera Zezolla”. Il tufo “non rende le stagioni tutte uguali per chi abita” nella città dei mercati, costruita con strati spagnoli e arabi, con la faccia sempre al sole eppure sola con le sue domande inevase. Giovannella color nocciola, alla Sanità, conta i giorni e ha i diavoli in corpo. Una legione che solo con la speranza si può cacciare.
“Siamo contornati dai morti, vecchi e nuovi”, ci stanno sul collo. Il grande seduttore “vive nel tufo”, una “roccia effusiva” che sa raccontare arte e battaglie di vita. Ci vorranno preghiere di sangue per spianare rughe e bestemmk.
La galleria dei personaggi è una topologia di vicende umane e di lotte per arrivare a sera custodendo una piccola luce di senso. Il professor Palladino dice che “non c’è bisogno di scrivere niente sulla carta, è già scritto tutto in faccia”. Provate a scavare Napoli: troverete la Spagna, la Francia, il Medioevo con i suoi Cavalieri eterni, la filosofia dei Greci, l’essenziale cura che fu dei Romani.
“Questa è una città che ha sempre scherzato col buio”, si allunga a dire il cronista che racconta vite perdute, “noi veniamo dalla terra e dal tufo”, non abbiamo paura di niente. “Noi camminiamo sopra al fuoco” e “siamo tutti il fritto di fuoco e sangue”. Santa Maria ai Meschini guarda e sa. Lei vede nell’ombra, sotto la pelle del cuore, vive quella Napoli “abbondante d’ogni cosa becessaria all’uso umano”, dice Portulano. Già, perché la prima caratteristica del napoletano è avere uso di mondo.
Conoscere la vita, guardare in faccia la morte, serbare un segreto, forse l’unico che fa da metronomo alla ricerca: “restare fermi non si può”. Bisogna far sparire i lacci con cui è legato il molrto prima che il boia li venda, perché le funi proteggono dal maleficio. “I napoletani sono ottini osservatori di segni”, e hanno conosciuto la medicina pratica (e santa) di Giuseppe Moscati.
Pasquale il guardiaporte vede i morti e ci parla. In Chiesa, dove tutto è possibile e i mondi si confondono. “Quando sarà il mio turno – diceva – in Purgatorio mi accoglieranno con un bicchiere di vino. E a lui piaceva ‘o pere ‘e palummo”.
A Napoli il male, forse, è nella capa. O forse, come dice Fulvio Tessitore nelle ultime pagine del libro, “Napoli è come una baldracca che attrae e tradisce, eppure non si può fare a meno di ritorcarci”, perché “ognuno ha uno sguardo e occhi da ricordare, ciascuno ha un male che si porta dentro, un’assenza, una lontananza che non si riesce a percorrere”.
Nel suo Denkweg di labirinti e cadute, Napoli resta in attesa, tra i perimetri di mille ritorni del cuore. Con la sua ciotola vuota e le parole al vento, raccolte da chi – come Scoppettuolo – da tempo ha buttato a mare mandolini e poesie per metterci davanti a un gioco di specchi e verità che non fanno sconti. Oggi più che mai la dolce e triste Sirena ha bisogno di sale. Non il sale con cui i Romani cospargevano le città dei vinti perché non potessero risorgere più, ma il sale della cultura e della bellezza, delle ricerca che è febbre di umano, di quella “paticità” che è sentire con l’altro, come insegna con i suoi novantasei anni di saggezza il maestro filosofo Aldo Masullo.
Napoli è un esemplare di destino dell’oltre. Di un oltre che non ama parole ma pezzi di carne, vissuti, pensieri lunghi come il vino rosso, nella spietata virtù di un principio di realtà che vede i suoi vicoli venati di tante, troppe sofferenze non meritate.
Qui la vena dello scrittore consuma distanze dagli stereotipi, invita a leggere nella pietra lavica e lo zolfo, in direzione dell’algoritmo futuro. La differenza sarà il “come” si vive Napoli. Scoppettuolo lo ricorda e lo indica, con la perizia di chi sa catturare segnali bassi. Bisogna smettere di leggere interiora di pollo e volgersi finalmente a decodificare scenari di possibili futuri. E gli scenari, a Napoli come in ogni buco di mondo, si costruiscono sempre al plurale. I pescatori di senso sapranno quale rete tirare a riva.
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