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17/11/24 ore

Il dolore di Arye e Amir Gut


  • Elena Lattes

In Italia pochissimi sanno dove si trova il Nagorno Karabakh e probabilmente quasi nessuno ha mai sentito parlare di Khojaly. Eppure non moltissimi anni fa, nel 1992, questa città fu teatro di uno dei più sanguinosi eccidi di quel decennio: oltre seicento morti, di cui 106 donne, 63 bambini, 70 anziani; quasi cinquecento i feriti e più di mille i prigionieri. Un bilancio pesantissimo se si pensa che la popolazione era precedentemente costituita da circa seimila persone e che tutto questo avvenne in una sola notte alla fine di un gelido febbraio.

 

Sullo sfondo di questa tragedia si svolge il romanzo “Il dolore” di Arye e Amir Gut, pubblicato da Sandro Teti Editore. Una storia d’amore difficile tra due ragazzi, molto belli, bravi e intelligenti, è alternata a stralci di articoli, testimonianze e informazioni su quanto avvenne in quel periodo.

 

Roja, 25 anni, è una sopravvissuta, laureanda in medicina e presidentessa di un’associazione che si occupa di aiutare i profughi e di far conoscere al mondo il dramma dei superstiti. Polad è un giovane israeliano di origine azera, di padre musulmano e madre ebrea che torna nella terra natia per raccogliere i dati necessari alla conclusione della tesi di dottorato che riguarda proprio la guerra per il Nagorno Karabakh, una regione montuosa nel Caucaso meridionale, contesa tra Armenia e Azerbaijan.

 

Un incontro-scontro di due culture e mentalità diverse – l’israeliana, aperta, laica e liberale e quella azera più tradizionalista e austera (soprattutto nei confronti delle giovani donne) - mediate dalla buona volontà di tutti i protagonisti coinvolti e dalla fraterna, antica e profonda amicizia fra i genitori dei due ragazzi.

 

Benché alcuni dei personaggi minori e lo sfondo siano reali, il romanzo non ha pretese di essere un saggio storico. I fatti sono narrati da un unico punto di vista, quello delle vittime civili azere le quali descrivono gli armeni come nazisti senza un briciolo di umanità; più volte vengono ripetute macabre cronache di quella terribile notte: testimoni raccontano di come intere famiglie furono colte di sorpresa e deliberatamente massacrate dall’esercito armeno e dai carri armati del 366° reggimento di fucilieri motorizzati dell’ex URSS, mentre tentavano di fuggire dalla città assediata.

 

La stessa versione è confermata da numerosi resoconti estratti dai media più disparati (Financial Times, Izvestija, Le Monde, PBS Tv, RTF Belgio, The Washington Post, The Independent, The Sunday Times) e soprattutto da ampi stralci del saggio “The black garden” del giornalista inglese Thomas de Waal, esperto dell’Est Europa e del Caucaso.

 

Gli autori del romanzo, padre (giornalista) e figlio israeliani di origine azera, non si limitano a raccontare il “dolore” dei profughi e dei sopravvissuti, della loro nostalgia per le montagne e le terre abbandonate, ma ci accompagnano anche in un mondo di cui qui in Italia non si parla mai, in quella striscia di terra bagnata a ovest dal Mar Nero e a est dal Mar Caspio, da sempre contesa tra il mondo russo slavo, quello turco ottomano e quello iranico-persiano.

 

Zone dalla natura meravigliosa e di importanza strategica, sia in passato per la loro posizione di collegamento e passaggio tra Europa e Asia, sia attualmente per le risorse naturali ed energetiche, che ospitano popolazioni di tante etnie e lingue diverse, spesso coinvolte in drammatici conflitti.

 

I Gut ci descrivono una Baku moderna e ospitale nella quale da sempre hanno convissuto in pace musulmani, cristiani, ebrei e zoroastriani e la cui popolazione, prevalentemente di origine turca ma di religione sciita (moderata), ha saputo coniugare armoniosamente le varie tradizioni e che si sta impegnando con successo in un processo di modernizzazione che guarda all’occidente.

 

Anche di Israele si ha l’immagine, scevra dai pregiudizi più comuni in Italia, di un Paese in cui profughi e civili in fuga da persecuzioni e massacri, dimenticati dalle associazioni umanitarie e dai grandi organismi internazionali, non solo trovano rifugio, ma possono integrarsi e, nonostante tutto, ricostruirsi una vita serena.

 

Benché il “Grande Kharabakh” sia ancora conteso e le tensioni non sopite potrebbero in futuro dare adito a nuove esplosioni di violenze, il romanzo offre una visione, sì nostalgica e rivendicativa, ma nel complesso positiva e ottimista. Un peccato, soltanto, che nel libro manchi un piccolo vocabolario che spieghi le parole e che illustri soprattutto i cibi azeri così decantati nel racconto.

 

 


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