di Giordano Picardo
Tammurriate e posteggiate. Ballate di briganti, storie di pacchiane e canti a Mamma Schiavona, la Madonna che sa ascoltare la preghiera dei femminielli. E poi tradizioni dimenticate e canzoni di bottega, storie di giornalai e di albanti frombolieri. Il Maestro Roberto De Simone con il suo nuovo libro, 'La Canzone Napolitana', edito da Einaudi, con le splendide illustrazioni dell'artista irpino Gennaro Vallifuoco, ci regala un viaggio nella poesia di versi e note nate nel grembo di Partenope, sempre pieno di voci e di vite, di scommesse portate a sera, dove la vicenda del popolo rifrange destini e sulla pietra lavica sa raccontare destini.
"Lo scrittore di questo libro - avverte De Simone nell'incipit del volume - non intende assumere la canzone napoletana come barca per una passeggiata tra Posillipo e Santa Lucia, ma come vela di una nave spinta dai venti della storia e da quelli del mito, onde solcare le acque extraterritoriali dell'avventura umana, le onde sonore rimosse dalla memoria...".
Tra incanti di sirene e sceneggiate di ambulanti, la filosofia di Giordano Bruno e la saggezza di zia Arcangela, l'autore di 'Fiabe campane' conduce il lettore alle vene della composizione mucale napoletana, svelandone i mille intrecci di sacro e profano, magia naturale e superstizione, facendoci conoscere compositori semicolti e villanelle, chiavi di violino e musica di popolo, dal Cinquecento fin quasi ai nostri giorni.
Ci si immerge in una atmosfera che porta un vento contadino e guerriero, quello che sa parlare in ogni tempo, con canzoni per i riti pasquali, per liberare anime dal Purgatorio o per la mietitura del grano, come accade per Candida, in Irpinia, o per la lavatura dei panni sulle rive del fiume Sabato.
E, sempre nella verde Irpinia, i cori a più voci nelle aree di Montemarano e Montella, in occasione della raccolta delle castagne, come il canto 'Rosa argento e rosa amò', in uso fino al 1980. La griglia di esempi attesta una storia di polifonie orali in Campania, fino a tempi recenti. Umanità ineguale, tra contingenze straripate e lotte di vita. A parlare è soprattutto la sapienza di detti e proverbi che da Natale a Carnevale si vestono di note e si tramandano al calore dei fuochi, come avviene per il brano 'Ianni dell'orto', tratto dalla pubblicazione del 1537 edita a Napoli da Giovanni da Colonia e conservato a Wolfenbuttel, nella raccolta 'Canzoni Villanesche alla Napolitana'.
Ci si rinfresca dal sole bevendo 'acqua ferrata', mentre don Pasquale 'o piattaro' ricorda che c'è un senso più profondo da scoprire, sapendo restare uomini. Il 'Conto de l'orco' insegna che 'chi ha denar fa nave', cioè chi sa investire e rischiare alla fine sarà premiato.
Si viene catapultati nei madrigali inquieti di Carlo Gesualdo insieme ai balli di donne tarantolate e al piglio deciso di Commara Panfia, mentre si portano suini a Sant'Antonio e salgono dai porti mille voci di 'Iliadi piscatorie'.
In queste pagine, il Nolano - bevuto un sorso da una caraffa - spiega alla folla: "la maggior Deità ch'ebbero i Napolitani fu il Sole, e primo il chiamarono Hebone... Sapete bene, poi, che col Sole era sempre in religione congiunta la Luna. Ben vederete congiunte in Napoli queste due Deità...", disse ancora Bruno prima di calmare i colpi di tosse con sorbetti gelati. E Napoli è ancora lì, bellezza carnale che 'allucca e canta', perché sa cominciare sempre daccapo.
Come alla vigilia del secolo dei Lumi, quando dopo malattie e giri di corda di ingiuste tasse patite dal popolo, gli esausti abitanti, con cesti rituali questuavano alla Signora (Napoli) un'offerta di frutta secca, contraccambiandola con bei propositi per il secolo in arrivo: "Che nferta ci farai, bella Signora?/Che nferta ci farai, che l'aspettammo?/Si ce la fai de nuce e pignuole, che puozza fa' nu figlio mariuolo./Si ce la fai de nuce e nucelle, che puozza fa nu figlio cu la stella".
È in questa giunzione di voci perdute e pietre del futuro, che le opere di Vallifuoco - scandendo pagine e storie -, si fanno esse stesse 'cunto', lasciando che colori e volti diventino carne di tutti, arte sociale perché ricongiunge paesi e storie. Non per fermare sabbia di nostalgia nela clessidra del tempo ma per seminare ancora denti di drago, costruendo identità su radici di colori e canzoni.
In questo imperdibile gioiello di tradizione mediterranea, De Simone ci consegna un messaggio inciso su pietra lavica, uno spazio dove storia e metastoria si fondono e confondono, tra 'Misteri' religiosi fatti di latino storpiato e chitarre di strada, tarantelle abitate da malandrini e il mare del guarracino che invita a slargare l'occhio verso l'azzurro di un mare che sa festeggiare i ritorni. Poesia e oralità digiacomiane stanno nella topologia di anime canore allevate nei 'vasci', parole chiare che si fa strada nei mercati insieme alla musica di Zeza.
È vero: continuiamo a inseguire una 'quatrana' (ragazza) che porta una veste rossa: "E la quatrana è bbona, a me me piace r'a 'pazzia". E' il simbolo della canzonde napoletana, la sua essenza più vera, figlia di Sirene e di pescatori che 'appicciano' lampare quando è notte. E allora "a lu suono de grancascia viva lu popolo vascio./A lu suomo de tammurielli so' risurte li puverielli".
Un canto orale di Bagnoli Irpino racconta l'uomo che insegue l'amata, la quale sfugge cercando di assumere aspetti diversi. Il ritornello recita: "Vola, palomma mia, pe' quanto può vulà, /pure ngimm' a sti braccia t'hai da venì ' a pusa".
È la cifra di un mondo, quelle delle canzoni del Sud, dove qualche volta l'amore vince e il tamburo fa compagnia a un sorriso, pure se 'scognato' di mille paure.
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