Un allievo zelante, geniale, un grande lavoratore. Così venne definito dal suo insegnante, Franz Liszt, nato in una cittadina austro-ungarica nel 1811. Figlio di un musicista, secondo violoncello nell’orchestra di Esterhazy e pianista più per passione che per professione, Franz fu iniziato all’arte da suo padre. A sei anni era già un prodigio e il genitore, che era sicuramente intelligente e non presuntuoso, si accorse che l’allievo aveva superato il maestro.
Fu allora che Adam affidò il suo bimbo agli insegnamenti del 31enne Carl Czerny, il quale, a sua volta, aveva studiato per tre anni con Beethoven. Il giovane, che fu autore di importanti saggi sulle tecniche pianistiche e di oltre un migliaio di composizioni didattiche per pianoforte, tanto che ancora oggi la sua scuola è tenuta in alta considerazione, aveva appreso dal grande compositore tedesco “la sola posizione giusta delle mani e delle dita” sulla tastiera.
Questa fu, per il piccolo, una grande fortuna, così come lo furono il suo talento (“la natura aveva fatto di lui un pianista”, scrisse lo stesso Czerny) e l’aver avuto un genitore così lungimirante. A parlare della sua vita, ma soprattutto dei suoi successi e dell’ambiente in cui ha sviluppato la sua attività musicale è stato recentemente Piero Rattalino che ha pubblicato con la Zecchini Editore “Liszt pianista. Tecnica e ideologia”.
Un libro piacevolmente scorrevole in cui l’autore spiega in maniera semplice e chiara, anche per chi non è un esperto nel campo, le trasformazioni della tecnica, le filosofie che ne sono alla base e il contesto socio-politico che contribuì a questa evoluzione. Liszt, infatti, in linea con i grandi cambiamenti dell’epoca - un’epoca in cui l’aristocrazia stava perdendo progressivamente la sua autorità e la supremazia a favore della borghesia e dei ceti più bassi – desiderava creare per la musica pianistica un pubblico di massa.
Per raggiungere questo scopo si applicò anche dal punto di vista economico e professionale: distribuì biglietti gratis per una sua performance, tenne concerti per tessitori in sciopero, per la Reale Loggia Massonica e per beneficienza. Il popolo lo ripagò ampiamente, mostrandogli tutta la sua gratitudine: un coro di operai gli fece una serenata, “al suo passaggio le folle impazzivano, soltanto il re (…) veniva accolto con cotanto tripudio” racconta uno dei suoi allievi.
Liszt era diventato, per i suoi contemporanei, una sorta di “pop-star” dei nostri tempi: “una donna cadde in ginocchio davanti a lui, un’altra lo abbracciò coram populo, una terza raccolse in un flacone ciò che restava nella tazza in cui aveva bevuto il tè, altre collezionarono i mozziconi dei suoi sigari, si portavano guanti con il ritratto di Liszt (…)”, tanto che Heine coniò il termine Lisztomania.
Il grande pianista, suonò anche nelle maggiori corti europee e mantenne stretti rapporti con molti dei suoi colleghi contemporanei: fu amico di Wagner, di Clara Wieck Schumann, di Rossini; incontrò Bizet, Borodin, Paganini e frequentò artisti, quali pittori e letterati. Relazioni, a volte intense, che furono fondamentali per la sua formazione. Il suo stile, infatti, fu il risultato di un lungo processo di elaborazione dettato naturalmente dalla sua sensibilità, ma anche dalle influenze esterne.
Lo stesso “vecchio” insegnante Czerny, annotò che a distanza di un anno il modo di suonare era cambiato radicalmente: l’esecuzione da “brillante e limpida” era diventata “complessa e rimpinzata di difficoltà tecniche”. Il Barone Von Neumann scrisse che “sotto le sue dita il pianoforte diventa uno strumento completamente diverso”.
A determinare la sua originalità non erano unicamente la posizione delle mani e delle braccia o la velocità delle dita sulla tastiera, ma anche il considerare i brani dal punto di vista poetico, pieni di sentimenti non soltanto da ripetere, ma anche da ricercare, interpretare e reinventare: “Il virtuosismo (…), quanto la pittura, esigono capacità creativa, per dar vita a delle forme che siano frutto di un’idea nata nell’animo dell’artista, con la quale il suo prodotto, per non essere un mero prodotto industriale, potrà innalzarsi ad opera d’arte. Il virtuosismo non è vuota ricettività (…)”.
Importante anche la mimica che abbondava pure nella comunicazione con i suoi studenti: “Di norma sedeva accanto o di fronte all’allievo che stava suonando e indicava con l’espressione del suo viso le sfumature che desiderava mettere in evidenza nella musica […] Seppi sempre perfettamente che se fossi stato in grado di guardare il viso di Liszt per tutto il tempo in cui suonavo avrei capito che cosa volevo esprimere in ogni pezzo di musica” scrive uno dei suoi alunni.
Come si può facilmente intuire da quanto fin qui scritto, il libro riporta ampi stralci di diari di allievi e colleghi da cui ne esce un ritratto particolareggiato ed evocativo. L’autore affronta l’argomento dividendolo in quattro capitoli, corrispondenti alle diverse fasi del compositore, riguardo le correnti di pensiero e i relativi movimenti artistici a cui Liszt si è ispirato: il Biedermeier, il Rivoluzionario, l’Illuminista e il Visionario.
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