Storie che sono un taglio nella carne. Parole 'squietate' che chiamano a parlare le ombre, e non lasciano mai i sentimenti a metà. 'La compagnia delle anime finte', di Wanda Marasco (Neri Pozza, pp. 238, euro 16,50) è un libro che non fa sconti: cattura il lettore in una narrazione che è intreccio di vissuti, tra i vicoli di Napoli, fatti di tufo giallo striato di dolore e spiriti antichi che cercano un posto al sole.
Dalla collina di Capodimonte, Rosa guarda la bellezza di Partenope, città che condanna a un perenne esilio del cuore, e parla con il corpo di Vincenzina Umbriello, la madre morta. Impagina ricordi lastricati di lava, i giorni della 'famme' nel dopoguerra, l'usura e la lotta per restare in piazza, in quei metri di carne e spirito dove tutto si accende e tutto si consuma.
Spia nella carne di una morta il senso di azioni finite, perché nel passato ormai nulla può accadere, e chi narra deve avere la forza di ricucire gli strappi passando una mano sul cuore sotto i panari sospesi ai balconi. La faccia è di calce, le voci della guaglionera portano urgenze e ricerca, il destino si scrive con scelte quotidiane, "come se la terra aprisse le coscienze" e vomitasse inviti a uscire da porte 'nzerrate.
Le parole sono misericordia quando incontrano volti, "uno spettro comincia a nutrirsene se ravvisa la pietà di un altro". Marasco porta in scena vecchie che hanno consumato il loro disincanto e ragazze costrette al pavimento di un manicomio, 'stupitiate' come la vita che è sempre un biglietto in bianco per ciascuno. In questa topologia di pazzi e sognatori, di gente attaccata con le unghie alla vita che passa, "le storie usciranno dalla carne, perché devono inoltrarsi fra una creatura e l'altra come una restituzione e un agguato".
Una voce chiede a ognuno 'di che malattia siete?', perché ognuno ha un suo guaio, cose disperse "ai limiti dei destini, veri avanzi di sogni". Ha il volto del dottor Maiorana, il 'rifinitore' che pure non riesce a contrastare la moglie fino in fondo, il sentimento antico del matrimonio "e della pazienza da spenderci dentro"; ma sotto la brace custodisce anche una verità che bussa come un vento sulle spalle di ogni carne in cammino: "ogni ferita è una persona di cui non si sa nulla".
Rosa è cresciuta nella morte, all'ombra di melograni spaccati e maligni. In vicende dove gli alberi memoriali e il lauroceraso sono rimando ad altri mondi, c'è anche un "dirupo che masticava la loro ombra", miserie di femmine abusate nel bosco e rumore di erba di vetro sotto gli scarponi. Un laboratorio di umanità dove nessun giorno si ripete, portando sempre la scommessa di durare e la voglia di riscatto, "perché il sangue non si doveva ripetere".
Adelì invecchia e man mano perde l'anima. Vi erano giorni della vernata in cui urlava in mezzo all'aia i debiti fatti per inseminare i campi, e le pezze appese, eppure "questa forza di insistere contro la vita" non l'aveva ancora perduta. I basoli sono il regno delle megere, l'altra faccia di una Napoli che ha l'azzurro negli archi, e goccia olio di speranza sulle facce strappate alle mani di altre femmine. La terra agisce, sempre. Fa da quinta a sequenze dannate, rende lo sguardo fresco e primitivo come quello di un animale che aspetta il gesto buono oppure, come scriveva Giordano Bruno, è un cane che ha ricevuto mille spellicciate.
Vincenzina conosce le ombre della casa di Rafè, il marito che diventerà giallo di morte, e le ombre la lasciano passare. Sceglie di sfiorarle, e di ascoltarne il lamento. "Mia madre non inseguiva la fortuna come facevano le orche del palazzo quando si raccontavano i sogni e indovinavano i numeri al Lotto.
La cercava a terra, tra le crepe dei basoli, i tappi, i vetrini colorati, le biglie". Per le carni senza sale si cercano pezze asciutte, si alza il collo verso gente storta e case oblique. Il vecchio usuraio, Carmine Musca, ha una "camminata acquosa" e si porta dentro l'inferno prima di spalmarlo sulle riggiole delle sue vittime, nei bassi anneriti dalla miseria. Anche Vincenzina ha la forza di tigre, e quando va a parlare con la zoccola che gli sta rubando il marito, lo fa signorilmente, "senza strascìno".
Il silenzio è rotto dal fischio dei serpari, e c'è sempre un altro viaggio da fare perché "il dolore è geniale con i sentimenti". Non bastano le catene dell'angelo a scacciare la vecchia nera che ha la falce in pugno, e prende anche il 'paparannuocchio' Mariomaria, la creatura che "aveva dentro di sé una preghiera rovesciata".
Serve uno "sguardo di cemento" per camminare ancora sulle soglie, per raccogliere le risposte mancate che abitano l'oltrepasso delle nostre paure, di una miseria diventata filosofia di vita. "Dentro lo stanzone di Vilaricca, le sorelle spampanavano la lana per rifare i cuscini a primavera". Oltre le macerie. Forze anche Vincenzina e Rafè non si sono persi del tutto. Forse alla fine uno straccio scaccia le mosche nell'aria. Forse, aprendo un secreté, torna a parlare una vita.
Dopo 'Il genio dell'abbandono', Wanda Marasco ci consegna pagine che sono a metà tra la commedia umana del Candelaio del Nolano, con le sue puttane e mentitori, e la serietà di giorni invincibili fissati sulla carta da Baudelaire, con personaggi che hanno il diritto di contraddire e quello di andarsene.
In maniera sartoriale, questo libro si attaglia a una ricerca umana di connessioni e verità profonde, di ciò che resta, come una gola che cerca aria dopo aver scavato sotto pietre pesanti.
Se fosse un quadro, questo libro sarebbe una tela destrutturata di Salvatore Emblema, un'opera dove tutto ciò che conta alla fine è fatto di linee precise e pochi, essenziali, meravigliosi disegni al centro. Un libro che parla a vene profonde. Irrinunciabile.
Giordano Picardo
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