"Concedetevi una vacanza intorno a un filo d'erba". Franco Arminio continua a raccontarci umanità nella sua nuova raccolta di poesie, 'Cedi la strada agli alberi. Poesie d'amore di terra', edito da Chiarelettere (pp. 149, euro 13). Pagine che mostrano la pietra bianca d'Irpinia, il verde della sue terra dove si perde il grido del lupo. E le lotte della sua gente, sempre incompiute e bellissime.
Scrive Arminio, paesologo dell'anima: "Abbiamo bisogno di contadini, di poeti, gente che sa fare il pane, che ama gli alberi e riconosce il vento./ Più che l'anno della nascita, ci vorrebbe l'anno dell'attenzione./Attenzione a chi cade, al sole che nasce e che muore, ai ragazzi che crescono, attenzione anche a un semplice lampione, a un muro scrostato./Oggi essere rivoluzionari significa togliere più che aggiungere, rallentare più che accelerare./ Significa dare valore al silenzio, alla luce, alla fragilità, alla dolcezza".
È vero: abbiamo bisogno di fare il pane ma anche di condividerlo, di masticarlo insieme all'altro, di togliere bende e mettere sale sulle carni, di sentire voci che sanno di pietra e argilla. Queste pagine non sono magazzini della memoria ma sentieri sterrati verso altre ricerche di senso; tirano un elastico sul nostro futuro più proprio, perché ogni viaggio porta con sé l'odore del focolare di casa, un 'perché grande' da portare a sera spesso sotto altri cieli e con la nostalgia di chi - per dirla con Rocco Scotellaro - fuori dalla propria terra non si fa un bicchiere contento. Filano le paure, ma pure le speranze. Scorrono le sorgenti, tra Caposele e la Lucania, le vecchie capanne dei briganti e gli angeli tirati alla fune sul Castello di Gesualdo.
Il poeta di Bisaccia, nell'Irpinia d'Oriente, è un demiurgo della parola. Perché prima la parola la vive. È quella dei nostri contadini, che cercano ancora un posto nella storia, uscendo da tante curve e legni storti. Il poeta usa gli occhi per ascoltare, respira con la sua gente. Perché "guardare è una culla", sempre. In Irpinia non ci sono le Erinni che arrivano da fuori e si impadroniscono delle emozioni: ci sono storie da vivere. Sanno sempre di pietre da spostare per continuare a zappare futuro. Hanno la bellezza dei boschi e i colori di artisti come Gennaro Vallifuoco.
Un narrativo forte, perché quello che comanda è l'idea, il 'lampo di luce'. La prima volta che scrisse una poesia, Arminio usò "una penna rossa, su una di quelle agende in finta pelle che regalavano i commessi che venivano all'osteria di mio padre". Nella sezione 'L'entroterra degli occhi', ci si ritrova ad abitare stanze, a guardare le piane, il vento, il grano, "impara a chinarti su un mendicante, non limitarti a galleggiare, scendi verso il fondo anche a costo di annegare. Sorridi di questa umanità che si aggroviglia su se stessa. Cedi la strada agli alberi".
Ai ragazzi del Sud, il poeta ricorda: "abitate una terra antica, dipinta con le tibie di albe greche". Ora "ognuno è fabbro della sua solitudine e per stare in compagnia si è costretti a bere nelle crepe che si sono aperte tra una strada e l'altra, tra una faccia e l'altra". L'Irpinia è incisa nella carne: "Prendi un angolo del tuo paese e fallo sacro, vai a fargli visita prima di partire e quando torni./ Stai molto di più all'aria aperta. Ascolta un anziano, lascia che parli della sua vita./ Leggi poesie ad alta voce. Esprimi ammirazione per qualcuno. Esci all'alba ogni tanto./Passa un po' di tempo vicino a un animale, prova a sentire il mondo con gli occhi di una mosca, con le zampe di una cane".
Luce ampia, ventilata e spinosa, "sento che siamo arrivati ai giorni semplici", andiamo dentro le ore senza saltarne una. Accanniamo legna per l'inverno e parliamo con i vecchi, che sanno la vita. Occorre svegliarsi nel caldo degli abbracci, e sapere di dover andare. Sempre: "parlami, aspetto a carne aperta che mi parli. Noi non siamo qui per vivere ma perché qualcuno deve parlarci". L'amore è cosa seria. "La prima volta non fu quando ci spogliammo/ma qualche giorno prima,/mentre parlavi sotto un albero./Sentivo zone lontane del mio corpo/che tornavano a casa".
Cerchiamo di stare con i piedi per terra, "lavoro come un fabbro fino a tarda sera per dare al nostro amore un cancello, una ringhiera". E ancora: "Vorrei vederti in queste mattine che non ama nessuno. Io neve di marzo, tu vento d'aprile". A ogni donna si dovrebbe dire: "io da te voglio la lingua. Ma non quella che dice. Quella che sale dalla terra, che è radice". Mastichiamo preghiere a un cielo di santi e cerchiamo ancora carne che trattiene al mondo: "ti voglio vedere, come voglio vedere le mani di mio padre morto".
C'è infine una consegna, che può valere come un bastone di nocciolo che accompagna il cammino: "Non ti affannare a seminare noie e affanni nelle tue giornate e in quelle degli altri,/ non chiedere altro che una gioia solenne./Non aspettarti niente da nessuno./E se vuoi aspettarti qualcosa, aspettati l'immenso, l'inaudito". (Red.)
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