Nella società moderna, multiculturale e multietnica, democratica e fondamentalmente laica, c’è ancora spazio per un ruolo pubblico delle religioni? E se sì, quale può (o meglio, quali possono) essere? Jean-Mare Ferry, filosofo e docente di Scienze politiche e filosofia alle università di Bruxelles e Nantes, affronta questi interrogativi in “Le religioni nello spazio pubblico” riproposto dalle EDB Edizioni Dehoniane.
Dopo una breve analisi sociologica, l’autore affronta le sfide che le religioni, soprattutto quelle più diffuse in Europa come il Cristianesimo, hanno dovuto affrontare nell’ultimo secolo. Con la progressiva separazione tra Stato e “Chiesa”, quest’ultima, secondo Ferry, è stata relegata ad un uso privato e forse anche più dogmatico. Tuttavia, si è poi chiesto alle varie confessioni di “partecipare al dialogo civile”, riconoscendo loro, quindi, anche un ruolo pubblico. In che modo, allora, è possibile conciliare i loro interventi nel rispetto delle varie posizioni e delle libertà di coscienza?
Senza dubbio il processo che ha portato la politica ad affrancarsi dalle imposizioni dogmatiche ha permesso anche una più larga diffusione dei valori liberali e di giustizia. Alla base di questi è il principio del compromesso fra la libertà propria e quella degli altri. (laddove finisce una comincia l’altra).
Ma oggigiorno questo non basta più ad affrontare molti dei problemi e delle questioni aperte che riguardano sostanzialmente la vita dei singoli e il coinvolgimento del proprio corpo, come la clonazione, il suicidio, l’interruzione volontaria di gravidanza e così via. Ecco allora che le religioni possono offrire i loro contributi nel trattare questo tipo di problemi etici particolarmente delicati, senza imporre tuttavia la loro visione ed evitando di entrare in netto contrasto con chi non si riconosce in esse.
Perché ciò avvenga, l’autore suggerisce una “traduzione” di linguaggio (e di comportamento) che implichi l’abbandono delle pratiche di “evangelizzazione” e dei riferimenti diretti ai comandamenti divini (“Si fa così perché Dio dice che…”). I loro leader devono essere anche pronti alla “confutazione di contro-esperimenti e di contro-argomenti, senza opporre una qualunque strategia di auto-immunizzazione”.
In parole povere, dovrebbero abbandonare il dogmatismo ed essere pronti a riconoscere la validità di opinioni e teorie diverse. Insomma, si dovrebbe passare da un atteggiamento esclusivista del tipo: “la mia religione è la sola a essere vera e le altre sono nel falso” a un atteggiamento inclusivista, ovvero “la mia religione è vera, ma le altre possono prendere parte ai princìpi della religione vera (…)” o addirittura ad uno pluralista: “Non c’è la superiorità di una religione su tutte le altre”.
Quest’ultimo principio, in particolare, però, comporta d’altra parte, il rischio di un eccessivo relativismo in cui ognuno perde la capacità di ricerca della propria verità. Come evitare anche questo pericolo?
L’autore spiega allora le sfumature necessarie da apportare anche nella posizione pluralista: si dovrebbe passare dall’”idea relativista di verità plurale” alla “nozione prospettivista di verità polifonica”, ossia: “la verità in sé è Una e le pretese diversità, ovvero le certezze o le convinzioni, sono plurali”, tenendo ben presente la differenza tra certezza e verità ed essendo pronti ad imparare anche dagli altri.
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