In tutto il mondo ne sono rimasti soltanto tre e Simcha "Kazik" Rotem è uno di questi. Anzi, è forse l'unico capo tuttora vivente della Rivolta degli ebrei di Varsavia nella primavera del 1943. Nato nel 1924 a Czerniakòw, sobborgo della capitale, combattente del ghetto e partigiano polacco, ha raccontato le sue tremende e rocambolesche vicissitudini ne "Il passato che è in me", tradotto recentemente per i Belforte Editori.
L'originale, in ebraico, fu tradotto in inglese per la Yale University nel 1994, ma la versione italiana uscita poche settimane fa è ben più ricca, soprattutto per la presenza di una postfazione scritta da David Meghnagi, ordinario presso l'Università Tre di Roma e per le note, la prefazione e la cura nei minimi dettagli, di Anna Rolli.
Meno famoso di Marek Edelman che, dopo la guerra, nonostante la tragedia subita, nonostante i pogrom che continuavano da parte della popolazione polacca a falcidiare i pochi superstiti anche dopo la liberazione dal nazifascismo, nonostante la feroce repressione comunista, decise comunque di rimanere nel Paese natìo per "vegliare sulle tombe dei propri cari",Rotem si unì all'Alyia Beth, l'immigrazione clandestina, ostacolata dal Mandato Britannico che, nel 1946 portò numerosi sopravvissuti in quello che di lì a poco diventò lo Stato d'Israele.
Carattere schivo e riservato, dopo aver combattuto con tutte le sue forze insieme a poche decine di persone quasi disarmate contro la fanteria e i mezzi corazzati tedeschi, riuscì a salvare decine di suoi compagni guidandoli nella fuga verso la parte "ariana" attraverso le fogne, quando ormai il ghetto era stato letteralmente raso al suolo.
Si unì quindi alla Resistenza polacca, affrontando miriadi di difficoltà, fra le quali, forse la più grande fu sicuramente l'antisemitismo di cui la maggioranza dei suoi connazionali era impregnata fin nel midollo.
Rotem descrive le dinamiche fra i pochi sopravvissuti, la distruzione totale del ghetto e degli ebrei di Varsavia senza enfasi né falsi pudori, con uno stile asciutto che non scade mai nel gusto del macabro, usando un linguaggio semplice simile a quello di una cronaca giornalistica, lontano da qualunque autocommiserazione, in poche parole con grande sincerità e onestà intellettuale.
Attraverso i suoi ricordi il lettore può avere una visione di quel periodo - breve eppure più lungo di un'eternità per coloro che ne furono le vittime - e provare, anche se solo in parte perché non vissuto direttamente, tutto l'orrore e la desolazione, il terrore, la solitudine, le difficoltà e i tormenti che quei giovani furono costretti ad affrontare. Spesso si trovò a dover prendere istantaneamente decisioni che potevano costare la vita propria o dei suoi compagni, ma la determinazione ad andare avanti e a tentare di tutto per salvare quel poco che rimaneva aiutò lui e gli altri capi ad agire sempre con razionalità e a non cedere al panico.
Il professor Meghnagi, poi, attraverso le vicissitudini di Marek Edelman, a cui è dedicata la postfazione, analizza gli aspetti psicologici e sociali di quei giovani, dei problemi che ebbero nelle relazioni fra loro e la popolazione polacca, nel raccontare e rielaborare le indicibili sofferenze e dei sensi di colpa provati per essere riusciti a sopravvivere.
E' un libro intenso e molto importante, quindi, che però non ha soltanto un valore storico e biografico o sociologico, ma ne ha anche uno morale: oltre ai fatti raccontati, restituisce, sebbene solo parzialmente, un nome e spesso anche un volto ad alcuni fra i pochissimi polacchi onesti caduti nell'oblìo che ebbero il coraggio e la forza di ribellarsi alla feroce disumanità nazista e antisemita e a quei giovani che rischiarono o dettero la propria vita per salvare quella dei propri compagni.
Per questo "Il passato che è in me" dovrebbe essere letto da tutti, in particolar modo dai giovani studenti, magari promuovendolo come testo da adottare nelle scuole superiori e nelle università.
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