Piantine di prezzemolo strappate che portano male. Sale e maledizioni lanciate nel vento che al Sud porta le voci. Una mattina di novembre del 1841, una donna scava un fosso in un terreno cretoso di un paese dell’alta Irpinia, poi si accovaccia e partorisce una bambina. A salvare la neonata dal gelo e dalla follia di sua madre è Reginella, una giovane vicina di casa, che quella mattina la vede, per caso. La bambina si chiamerà Filomena, e nonostante la miseria crescerà sana e forte, e diventerà bellissima e strafottente. A raccontare la sua storia è Licia Giaquinto in ‘La briganta e lo sparviero’ (Marsilio, pp. 302, euro 18), incrociando leggende e verità, grano e sangue di gente ribelle.
Nella primavera del 1862, in un bosco lungo il fiume Calaggio, il suo destino si intreccerà con quello del brigante Giuseppe Schiamone. Filomena Pennacchio, la donna che divenne briganta, è ‘gran rispondessa’ ma soprattutto ribelle nell’anima. E’ cresciuta col veleno nel sangue, perderà il cuore dietro al suo brigante, che un giorno Carmine Crocco chiamerà lo sparviero, per la sua capacità di attaccare i nemici sul campo. L’aveva salvato dal morso di una vipera, “gli aveva succhiato il veleno ma anche l’anima”. Portava il gilé di velluto nero, ed era fiera come una regina dell’Apocalisse.
Al Sud “ogni momento di ogni giorno ha la morte in mano”. Si invoca l’Angelo dell’Amen, mentre nel cuore si pompa dolore. Ma “finché non accadono, anche le cose più certe hanno una finestra da cui scappare”. Si chiamava Vincenza Bucci, la madre di Filomena. Ogni giorno andava nei boschi, e le anime dei morti le soffiavano sulla bocca. Nascondeva segreti tra le grotte dell’acqua di San Sossio Baronia, nella verde Irpinia fatta apposta per raccontare e custodire, rinnovando con i salici annodati alle vite antiche battaglie con la vita. Un maccaturo vola sul tetto di una casa, e non è un segno. La profezia della vecchia colpirà, perché la vita non è fatta mai di un’unica corda. Ogni anno, la notte di San Giovanni, si mettono due bicchieri ricolmi di bianco d’uovo, fuori dalla finestra. Ci sono ianare e sportellari, monaci del santuario di Montevergine, nomi stuorti e streghe. In questo tempo, briganti si nasce. Suor Gendalina lancia una sentenza: “Noi donne era meglio se nascevamo vipere. Così almeno potevamo difenderci”.
Ci si aiuta a tirare fuori le acque marce che ciascuno si porta dentro. La gramigna cresce nonostante tutto, a contrada Montemauro. Si strofinano pentole con la pietra pomice, si pensa alle sette spade della Madonna addolorata, o a quel Dio che, raccontavano i vecchi, ha raccolto tutti i destini degli uomini in un sacco di iuta, e li distribuisce a caso al momento di venire al mondo. Il destino decise sempre le parti, anche quando si corre con cavalli forti nelle valli inondate di verde, tra Calitri e Bisaccia. C’è del pane germano alla Masseria Vassalli, ma anche la falce della morte da sempre in agguato. Perché i soldati piemontesi danno la caccia agli uomini liberi, “i lupi venuti dal Nord erano più lupi dei lupi veri”. La legge della strada è una sola: fermarsi significa morire. “Fammi vedere le mani”, dicono le madri. Perché “Solo le cose che non si fanno, non si sanno”.
Il 5 agosto 1863 fu approvata dal parlamento di Torino la legge Pica. E occorre stare attenti: “il grano messo nei depositi per la semina, veniva miscelato a polvere di calce per evitare che i briganti lo rubassero per fare il pane”. Ma “i briganti, lo sapevano tutti, si ricordano le buone, ma soprattutto le cattive azioni”. Si sta nei boschi, né coi Savoia, né coi Borbone. I pensieri svaniscono la mattina, ma assalgono sempre le menti come lanci di pietre. E i mestoli di sugna bollente sono una tortura che fa parlare. La terra nera copre il cuore. Negli occhi un dolore profondo che viene da chissà dove. Il cuore chiuso a pugno.
Maria Zappulli con un pezzo di carboncella disegna una figura di uomo su una pietra liscia e piatta. Poi prende dal sacchetto un pugno di lenticchie e le fa cadere per squarciare i veli neri del futuro. C’è luna piena, spesso. E forse le ianare passano di lì “per andare a Benevento a leccare il culo al diavolo, a dire a lui la messa la contrario, intrecciando le code ai cavalli”. Il destino dà appuntamento alla donna a un punto del fiume Calaggio. Succhia il sangue dal corpo di un brigante morso da una vipera. E il sangue diventa uno solo. Come la vita e la morte. Si corre verso montagne di roccia e di libertà, dove non ci sono né servi né padroni, solo terra profumata di muschio. E libertà conquistata con il sangue.
In nidi di carne e terra si vive ogni momento avendo di fronte o alle spalle la morte, nella “luna smangiata” di speranza. La madre di quel brigante amato da Filomena ogni giorno saliva al castello, pensava di poter parlare al figlio urlando al vento. Poco lontano la mefite di Rocca San Felice, e i suoi vapori di morte. Nelle pagine di Giaquinto, piene dei colori e degli odori di una natura aspra eppure rigogliosa, ci sono anche Carmine Crocco e la sua banda. Il loro regno sono i boschi di Monticchio. Le loro drude andavano in battaglia vestire da regine. “Io sono Carmine Crocco e non vi costringo a niente”, dice il capo dei ribelli. Bisogna stare attenti al canto del cardillo, mentre si gira per i boschi. E soprattutto non bisogna fidarsi di nessuno: “Il silenzio è il miglior modo per non cadere in trappola”. In una terra così, si cade solo per il piombo nemico o affatturati da una donna.
Il brigante aspetta all’acqua nera, in quel tempo il mondo girava come gli pareva. Per loro l’Altitalia era come l’Inferno. Erano stati traditi da tutti. Rosa ha un vestito di spine mentre si inerpica sui sentieri e cerca di recuperare u amore perduto. Non bastano le parole di zia candelora, quando qualcuno sta per morire arriva il succiacapre, l’uccello notturno dalla vita misteriosa, a prendergli l’anima per portarsela nell’aldilà. E poi c’è la ‘mmìria: la vipera è la ‘mmiria, l’invidia. E il massaro di Pratola Serra, trovato impiccato a un albero, come Giuda, con la moneta del tradimento in bocca. Per consolarsi, ci sono cicorie cardonciello.
Il tribunale di guerra di Avellino ha condannato Filomena a trent’anni di carcere. Dietro le sbarre i grumi dei ricordi sono ancora più neri. Ma verrà il tempo di lasciare quel luogo. E allora: “palummella zompa e vola”. In fondo, è la lezione amara di queste storie inquiete, “il mondo non cambia mai, e non importa chi comanda. Tanto a rimetterci sono sempre i poveracci”.
Salvatore Balasco
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