intervista a Domenico De Masi
- Mappa Mundi è uno sforzo significativo di ricomporre le fasi di una crisi soprattutto interiore degli individui, che, pur presentando le articolazioni che nelle varie realtà si vengono a configurare, ha un filo rosso che si può intravedere nell’interruzione di un modello di riferimento. Tu detti una specie di prospettiva possibile attribuendo a dei soggetti, gli intellettuali, il compito di costruire la pre-piattaforma di ricomposizione del modello di riferimento. Qual è la genesi di questo libro e quali sono le motivazioni che spingono a rischiare, da intellettuale, una sorta di contenzioso con quegli intellettuali che lei identifichi come corresponsabili del denutrimento di una prospettiva progettuale che segna la civiltà dell’uomo?
Il libro è nato dalla constatazione, da parte mia che sono un nomade per natura, dato che giro continuamente il mondo, che questo senso di sfiducia molto forte e di fine di una speranza in Italia, c’è in tutto il mondo. Non solo nei paesi che hanno un PIL che non cresce, ma anche nei paesi che hanno un PIL che cresce moltissimo, come la Cina, la Germania. I giovani, ovunque, vogliono andare altrove. Allora mi sono chiesto il motivo per cui questo senso di debacle sia così universale oggigiorno: c’è qualcosa che travalica la situazione italiana, greca o spagnola, ma che riguarda il mondo a prescindere dalla ricchezza che riesce a produrre. Il passo successivo, da sociologo, è stato quello di individuare tutto questo smarrimento in una incapacità di decidere le differenze, in un’assenza di paletti.
Noi siamo in grande difficoltà quando dobbiamo decidere se un quadro è bello o brutto, oppure se un fatto è vero o falso, se una cosa è di destra o di sinistra, pubblica o privata, perfino se maschio o femmina o se viva o morta (abbiamo discusso oltre un anno, ad esempio, per decidere se la Englaro era viva o morta). Andando a ritroso mi sono reso conto che è la prima volta che si ha, nella storia umana, uno smarrimento di questo genere.
- Da cosa deriva questo smarrimento?
Mi sono accorto che tutte le società precedenti, da quella greca di Pericle a quella medievale del Sacro Romano Impero o a quella degli stati nazionali ottocenteschi, nascevano in seguito alla progettazione di un modello ben preciso: il Sacro Romano Impero nasce dopo il lavoro dei padri della Chiesa, il Risorgimento italiano si basa sulle opere di Gioberti, Cattaneo, Mazzini, Beccaria, l’URSS nasce sulle opere di Lenin, di Marx. La nostra società post-industriale, invece, a differenza della società industriale, che nasceva sulle opere di Smith, Tocqueville, Montesquieu, non ha basi teoriche, un modello, e quindi ricorre a una miriade di modelli frammentati, dunque deboli.
Allora mi sono detto: se l’assenza di un modello pesa più di un modello, per quanto autoritario esso sia, occorre che si individui di chi è la colpa di questo vuoto. La colpa non è dei politici. Sono stati gli intellettuali che hanno creato questa confusione, con l’assenza dei loro apporti. Non hanno saputo rischiare. In un Settecento ancora pienamente dominato dall’assolutismo regio, in cui Luigi XIV aveva diritto di vita o di morte su tutti i suoi cittadini e in cui la Chiesa con la sua Inquisizione ancora poteva bruciare le donne con l’accusa di stregoneria, una quarantina di giovani intellettuali – una ventina in Francia, una decina in Inghilterra, alcuni anche in Italia – cominciano a dire: “Il re non ha nessun diritto divino, il suo diritto deriva dal popolo, che può toglierlo” o che “la Chiesa non solo non ha potere, ma non esiste neppure Dio”. Naturalmente il potere in carica li perseguita. Ebbene: chi di noi è andato in galera? Non abbiamo mai detto nulla di rivoluzionario, non abbiamo mai proposto un modello nuovo...
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