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16/11/24 ore

Siria, dov'è la felicità


  • Francesca Pisano

Ascoltare Shady Hamadi parlare della Siria fa salire una stretta fra lo stomaco e il respiro, è il materializzarsi di una sensazione di impotenza, inadeguatezza e sofferenza di cui ti devi fare carico inevitabilmente, come italiano, europeo, spettatore.

 

Succede spesso di sentirsi così, come per strada ogni giorno, ti chiedi: “che faccio, mi fermo? caspita è tardi..” Rallenti il passo, torni indietro; tante volte tiri dritto e poi l’anima ti segue, più lenta, mortificata ritorna piano al suo posto, nel tuo corpo materiale. La riconosci quella sensazione, simile a se stessa ed eterna, come la specie umana, forse, o forse no, se non ci saranno più “vincitori”.

 

Shady riporta le parole di uno dei ragazzi di Homs impegnato nella difesa della sua terra: “alcuni Paesi europei hanno smesso di dare visti ai siriani. Se c’è un Paese che vieta i visti, cosa ci si può aspettare? Nessuno ci aiuta, cosa dobbiamo fare? Noi non commettiamo massacri, stiamo proteggendo le nostre famiglie”.

 

Ha presentato il suo libro, ”la felicità araba" (add Editore) parlando alla platea di Fandango Incontro a Roma come davanti a un solo sguardo, senza trascurare alcun angolo dello spazio intorno, come se quella storia, vera, fosse destinata a ciascuno in maniera definitiva e universale, perché non c’è più tempo per aspettare.

 

Si è ispirato ai giovani che combattono da più di due anni e non hanno pace in nessun posto nel loro Paese. Sono raccolte le loro testimonianze e puoi sentire il rumore delle armi e della paura nel racconto di una telefonata interrotta dalle urla delle persone che scappano a nascondersi ovunque.

 

In Siria i giovani hanno smesso di pensare agli svaghi dell’età, a loro tocca il compito di lottare per sopravvivere alla dittatura. Eppure hanno una risposta alla domanda: “c’è stato un momento in tutto questo tempo in cui eri felice”? Sì tanti, quando nelle manifestazioni cantavo davanti ai soldati, quando riprendevo cosa stava accadendo”.

 

Come 60 anni fa il mondo intero è rimasto a guardare la strage dell’olocausto così oggi aspetta che la Siria ritorni al Medioevo, quando sarà polvere e il regime sarà veramente debole, allora sì che si muoveranno gli aiuti.

 

Shady sostiene che è necessario superare la paura dell’integralismo e abbandonare la concezione orientalista secondo la quale nulla potrà mai cambiare per gli Arabi, perché se i ribelli vinceranno la Siria non potrà che diventare un nuovo Afghanistan.

 

La realtà è molto diversa perché in Siria “c’è una coscienza generale di quanto l’integralismo possa portare alla disintegrazione della cittadinanza e dello Stato”, questa terra è il nodo centrale della Primavera araba.

 

Il Paese non suscita interesse per una mera questione economica, non rappresenta una meta di conquista per finalità legate alla ricchezza che può derivare dal petrolio, come in Libia ad esempio. Lì fra l’altro non c’era nemmeno una vera opposizione al regime, è stato l’Occidente a fondarla. La Siria è molto più avanti in questo senso sostiene Shady attraverso le voci dei siriani intervistati nel suo libro.

 

Alle domande sul perché di questi risvolti così diversi, una certezza vive ormai in ogni ribelle: “tutto il mondo, tutte le nazioni ci hanno abbandonati”. E’ necessario porre fine al massacro attraverso il confronto fra le diplomazie internazionali al tavolo della conferenza di Ginevra, ma perché il governo siriano sia ammesso deve liberare prima di tutto gli attivisti per i diritti umani e dare così un segnale di cambiamento. Bisogna imporre a Bashar Al Assad di cessare il fuoco perché si arrivi alla pace e a una soluzione politica del conflitto.

 

Autori come Shady Hamadi ripongono al centro della questione siriana l’attenzione ai diritti umani e sono in grado di ripristinare “un circuito di informazione corretta su cosa sta accadendo in Siria”, sostiene Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia.

 

Attraverso il suo impegno civile e questo libro contribuisce a ridare “dignità e umanità ai corpi straziati, ai loro familiari, alle attiviste e agli attivisti per i diritti umani” che sanno di poter perdere la vita ogni giorno, ogni ora.


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