Ferdinand de Saussure sembra a volte un architetto, studioso d’anatomia (“Si appoggia contro la parete anteriore del palato, lasciando però un’apertura a destra e a sinistra”) ma, ad un tratto, prorompe nella verità che ci piace ascoltare: “È impossibile” dice, “che il suono, elemento materiale, appartenga alla lingua”, poi abbassando il tono, come a dire un’ovvietà, e quasi gli sembra di essere pedante: “Per questa non è che un elemento secondario, una materia che essa mette in opera”. Le parole producono il pensiero.Se non esistesse la parola "dio" potremmo mai credere in Dio? Se non esistesse la parola "credere", potremmo mai credere di credere?
POESÌ di Rino Mele
Un giorno non sapremo più parlare
Non nella fisicità del suono è la lingua, ma nella visione che
lo determina (la sua “immagine
acustica”, scrive Saussure). Dall'abisso
la parola è generata
e vi ritorna
incessantemente, immateriale
come il delirio.
Costruimmo l’immagine vendicatrice di Dio con la nostra invidia,
alzammo al cielo la casa
della città di Babele (“Ba” è il padre, “Bel” è Dio),
la torre che in alto
s'attorce, ognuno parla una lingua
diversa, non sappiamo ricordare il nostro volto che ci sta di fronte - e
aspettiamo di straziare. Il lago ghiacciato
della parola
è una lastra sottile,
l'abisso
che non abbiamo conosciuto
e, nei millenni, ricoperto per farne un’infinita piazza dove inseguire
colui che espiasse le nostre colpe
e ucciderlo (il sacro
irriconoscibile
nella ripetizione dei rituali, le anafore, la voce che scompare).
Scivoliamo su quella lastra sottile
che ricopre l'abisso: sorpresi
di non riuscire a dire
se non quello che l'altro s’aspetta, marionette del freddo teatro
che ricopre la
bocca immane di un vulcano.
La parola che non conosciamo rimane sepolta, priva di resurrezione,
originaria
e irraggiungibile,
non contiene il tempo oltre la morte ma quello prima della vita
dove tutto è accaduto,
quel prima cui crediamo d'essere sfuggiti nascendo. Siamo diventati
un segreto,
divisi da qualcosa senza nome,
in un continuo allontanarci e tornare. Il rebus è nascosto dalle nostre
dita perpendicolari tra loro
a formare finestre murate, la grata d’un carcere.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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