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22/11/24 ore

POESÌ di Rino Mele. Suicidio per attraversare un troppo stretto confine



Fernando Aiuti è stato un immunologo dallo straordinario impegno nella lotta all’Aids. Mercoledì 9 gennaio, due giorni fa, alle 11, è caduto (o si è lasciato cadere) dal quarto piano nel vuoto interno alle rampe delle scale del Policlinico Gemelli. Mi ricorda l’angosciosa fine di Primo Levi, gettatosi dall’alto delle scale della sua casa. Ne scrissi tredici anni dopo, nel mio Il sonno e le vigilie (edizioni Sottotraccia, 2000). 14 versi, quanto quelli di un sonetto. Il testo è intitolato Morirsi, termina così: “L’11 aprile Levi seppelliva (correndogli / incontro) l’orrore, chiudeva tra le dita altre dita”.

 

 

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POESÌ di Rino Mele

 

 

Suicidio per attraversare un troppo stretto confine

 


Il doloroso staccarsi del corpo

dalla propria ombra. Incollati alla vita (pure, ne abbiamo paura),

sbalorditi

quando qualcuno ne vola via, l'alto e il basso sono sempre il profondo,

e l'azzurro delle scale 

di un ospedale

è lo stesso che vedi

dal tetto di un monte, o d'una cattedrale: restiamo stupefatti

come quando il battello parte,

rimasti

sul molo a guardarne la scia.

Il suicida non vuol finire se stesso ma lo stato d'orrore, il dolore

che lo ha stancato. Ci ritroviamo 

accanto al suo corpo

così simile a chi naturalmente

è morto, ne abbiamo disperazione, paura di somigliargli,

cerimoniosamente gli giriamo intorno,

aspettiamo scompaia per poterlo amare nelle cerimonie del lutto, tra gli

amici con misurato pianto, il compianto che ci accusa.

Cos'è la grande esercitazione mai interrotta delle atomiche, i letali

depositi immani (tragedia non riuscita

di un familiare

giudizio universale) se non una maniacale preparazione, il progressivo

avvicinarsi al suicidio

collettivo, mascherato da aggressività verso il nemico con il nostro

stesso viso, un corpo

con due braccia, il sesso di cui c'incuriosiamo, le gambe

stanche di camminare, la voce

con cui ancora barattiamo l'assenza d’amore.

Il suicida non vuol morire, ma passare attraverso

la morte, sa che è un muro, lo immagina 

d'acqua, come quello da cui è nato. Figura di suggestiva simmetria, 

la fine ha il volto di sua madre,

il primordiale spasimo delle sue cosce, il volto sudato, 

ora che lui vuol tornare.

Lontano il padre, la mano sugli occhi per non

vedersi guardare.

Dedalo e Icaro non aspettarono di morire nel labirinto di Creta, scelsero

di volarne via

uno di loro trovò chiuse le strade del cielo, continuò a precipitare.

 

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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.

 


 

 

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