La devastata desolazione politica in cui viviamo, l’assenza di dignità e di sensi di colpa, ci costringe a rivolgersi alle grandi figure della storia, incapaci di prenderne esempio ma almeno di avere nostalgia della loro forza morale. Questi miei versi scritti alla fine del 2017, dedicati all’Abate Gian Francesco Conforti, teologo e storico, razionale interprete della Repubblica Napoletana del 1799, non sono stati mai pubblicati in un libro ma, per volontà del sindaco Francesco Gismondi, gigantografati e posti il 1 gennaio 2018, su un grande muro all’ingresso di Calvanico, il paese in cui Gian Francesco Conforti era nato il 7 gennaio 1743.
POESÌ di Rino Mele
Rivoluzione dell’Abate Gian Francesco Conforti
Nessuno può capire l'umiliazione di un corpo
in attesa di sottometterlo
al capestro. A Napoli era così freddo quel sabato, il 7 dicembre
1799, in cui fu impiccato, tenuto fermo da mani ostili - e quella corda
che non conosceva - ripensò (un attimo) a Monte San Michele a Calvanico,
respinse il drago, sentì il santo che lo pigliava
con sé, la plebe gridava ingiurie come avesse una sola voce.
Piangeva fermo tra le sue pietre.
Qualche ora prima d'essere impiccato, pubblicamente fu dissacrato,
sconsacrato, violato nella sua anima, in una cappella
disadorna, il Cristo piagato tolto dalla parete e avvicinato al suo volto poi
riposto in alto, il vescovo di Acerno gridava l'anatema
in un latino scomposto,
gli veniva stracciata di dosso la veste bianca, la cotta che appena gli avevano
posto, gli sembrò che qualcuno mettesse nella sua bocca
una pagina del suo breviario, piegata come un'ostia o l'ala di un colombo.
Ricordò un passo di Geremia “Quia ascendit mors
per fenestras nostras”, ma la voce era ferita, gli tolsero un tessuto di lino che
stringeva tra le dita,
continuamente spinto a un movimento sghembo
cui non si opponeva, lui pensava l'angelo che consolava Cristo
sulla croce. Saliva verso i monti Mai,
un chierico glie lo impediva, un altro lo aiutava, era il suo piccolo Calvario in
quella stanza gremita,
la cappella del Duomo dove subiva (i canti
non finivano mai) la dissacrazione. Ora il suo corpo era pronto per la morte
sulla piazza del Mercato: si sentiva indifeso con quelle brache nere, la
camicia stretta sul petto, scalzo, salì sui rami di un castagno
della memoria, avrebbe voluto sottrarsi al tumulto, stare in alto per guardare
in silenzio
il ludibrio di quell'infinita frantumazione.
Il cielo era un grande foglio su cui ora scorgeva
i segni dell'estrema ragione, i passaggi logici della sua teologia dogmatica
nella certezza dei numeri, "secondo un modello matematico".
Chiuse gli occhi, li riaprì, non avrebbe conosciuto l'istante successivo, la
divina intermittenza dell'essere.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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