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24/11/24 ore

POESÌ di Rino Mele. Il voto e il vuoto



Quando siamo chiamati a votare ci troviamo spesso in una condizione ambigua, sentiamo - lieve o profondo - un certo entusiasmo per l’aria di festa popolare che accompagna quel rito necessario e, sempre, un doloroso disagio, come se quel votare non corrispondesse a una reale partecipazione per trasformare, insieme, la vita. Quasi fosse, insieme, festa e inganno.

 

 

 

 

 

                       POESÌ di Rino Mele

 

 

Il voto e il vuoto

 

In un’ardua semplificazione, come nei salti delle belle

figure del circo, quando nel trapezio (che oscilla leggero) saltando in

alto, nel vuoto, un atleta

vola

si lascia prendere dalle

braccia sicure di un altro, e le afferra,

dovrebbe essere l’azione di votare: trasmettere a un altro la tua forza,

la richiesta

e l’urgenza di una necessaria azione sociale. Non la delega stanca,

incerta,

che è spesso un fuggire da noi stessi,

un liberarci dal nostro impegno. Chi votiamo

dovrebbe saper rappresentare le mani salde del trapezista

cui affidiamo le nostre

nelle figure del difficile salto. Dovremmo, poi, poter controllare, senza

stancarcene: ritirare, confermare, quella fiducia

e l'impegno.

L'importanza di trasformare il progetto

in figura sociale,

continuando - in qualche modo - ogni giorno a dare quel voto, a

trasmettere

la nostra volontà, la richiesta, la verifica di quella delega. Le mani del

trapezista s'aprono,

le braccia si tendono, da sconosciuti si diventa fratelli,

compagni,

se oltre il voto continua l'urgenza

di realizzare il progetto, l’idea che è fatica e utopia.

Invece, è miseramente diverso quello che accade: col voto indichi

un capro espiatorio, lo travesti da re e sottrai all’invidia:

se è eletto si trasforma nel delirio

di una vana immagine,

un potere ineffabile, si guarda dattorno, si gonfia con gesuitico terrore, si

nasconde in uno specchio.

Nell'attimo del voto deleghi uno che (spesso) non conosci, lo estrai da

una lista che altri

hanno composto secondo familiari regole furbesche.

Dovebbe mettere in gioco se stessi quel delegare, ma a volte è solo

affidarsi a un’ombra,

quasi un liberarsi dalla responsabilità di fare per gli altri

quello che, col voto, chiedi ad altri di fare.

 

  

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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.

  

 

 

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