Anne (Emanuelle Riva, attrice storica del cinema francese poco nota al pubblico più giovane, già protagonista ai suoi esordi di Hiroshima mon amour, di A. Resnais, 1959) e Georges (Jean-Louis Trintignant), stanno vivendo una vecchiaia avanzata serena e tutto sommato attiva. Entrambi musicisti e insegnanti di pianoforte, colti, hanno ancora il piacere della lettura e della musica e si recano spesso in teatro a seguire i concerti, tenuti anche da loro allievi di successo.
Ma ben presto tale serenità subisce una prima battuta d'arresto. In una mattina qualunque, a colazione, Anne mostra sintomi di assentamento: si incanta, lo sguardo fisso e non reagisce al marito che la scuote; ripresasi, non ricorda più cosa le sia accaduto.
Da questo primo segnale di deficit cognitivo, poi una operazione alla carotide non riuscita la lascia con una paresi alla parte destra del corpo. La sua situazione peggiora progressivamente, sul piano fisico e mentale, fino alla totale perdita dell'autonomia. Georges non cessa un attimo di assisterla con amore inesausto e l'evento della morte di lei non è altro che il punto d'arrivo del continuo flusso di amore che percorre la loro storia coniugale...
L'intreccio semplicissimo è qualcosa che ciascuna famiglia ha vissuto o sta vivendo ed è arricchito dalle dinamiche tipiche: la ricerca di badanti-infermiere quando non ce la si fa più, gli scatti d'ira, persino violenti, verso il malato inerte e irriconoscibile: non sono che l'altra faccia dell'amore, il timore della perdita, l'insopportabilità della costante verifica del degrado della persona cui si vuole bene.
Si insinua a tratti nello spettatore persino il dubbio che l'amore tra Georges e Anne sia messo a repentaglio, ma non è così. Georges sembra chiudersi con piena consapevolezza nel suo dramma, non ha bisogno di appoggi che non siano puramente materiali. Così si sviluppano tensioni con la figlia Eva su come gestire la situazione (la figlia anch'essa celebrata concertista, una inappuntabile e bella Isabelle Huppert) e così quando, Anne già ammalata ma non ancora in condizioni disperate, i due vengono visitati dal loro allievo concertista, Georges rifiuta di confidarsi, di dichiarare la propria sofferenza, chiedendo al talentuoso e devoto pianista di parlare d'altro.
Opera severa dell'austriaco Michael Haneke (classe 1942), che ormai da anni sforna ottimi film ed è lontanissimo da quello dei tardivi esordi, con il mediocre e forzato dramma a sfondo sessuale de La pianista (2001, dove sempre la Huppert fa la parte di una insegnante di pianoforte soggiogata da una forma di morbidità sessuale), Amour ha ottenuto la palma d'Oro all'ultimo festival di Cannes, iterando la vittoria del 2009, con Il nastro bianco.
Haneke piazza l'obiettivo sulla soglia delle stanze dell'appartamento borghese parigino dove è girato quasi tutto il film. Fanno eccezioni poche scene iniziali, l'irruzione dei pompieri nell'appartamento, dove trovano un'anziana distesa sul letto, cadavere; lo spettacolo in teatro.
Le inquadrature fisse, secondo una modalità tecnica non nuova in Haneke, fanno luce in modo impietoso e oggettivo sulla lenta tragedia della coppia, dove il lieto fine (almeno nel senso comune dell'espressione) non è una possibilità che si dia. La maschera di Trintignant è straordinaria.
Tuttavia, siamo solo alle soglie di un grande film. Un film intelligente, che fa riflettere ma, per Haneke non paradossalmente, nonostante il contenuto e la forte componente sentimentale, un po' freddo (un limite più in generale dell'autore austriaco, anche per chi scrive), incapace di scardinare l'emotività, di penetrare sin nel profondo dell'animo e del cuore.
Giovanni A. Cecconi