In questi giorni è apparso sugli schermi italiani il nuovo film di Tom McCarthy, “Il caso Spotlight”, che sta suscitando grande interesse per l’argomento che tratta. Tom MacCharthy, già noto attore divenuto poi anche regista e sceneggiatore, ha al suo attivo altre pellicole: The Station Agent, L’Ospite Inatteso, Mosse vincenti, The Cobler.
“Il Caso Spotlight”, presentato fuori concorso alla Mostra Cinematografica di Venezia nel 2015, è candidato a 6 Premi Oscar: miglior film, miglior regia, miglior attore non protagonista a MarK Ruffalo, miglior attrice non protagonista a Rachel McAdams, miglior sceneggiatura originale a Josh Singer e Tom McCarthy, miglior montaggio a Tom McArdle.
Il racconto del film inizia dall’anno 2001, quando il nuovo direttore del “Boston Globe”, Martin Baron (Liev Schreiber), incarica un team di giornalisti investigativi, lo “Spotlight”, di indagare sul comportamento dell’arcivescovo Bernard F. Law (Len Cariou), sospettato di aver insabbiato dei casi di pedofilia.
Walter Robinson (Michael Keaton), capo di Spotlight, insieme ai suoi validi collaboratori, riesce a scoprire la verità attraverso accurate indagini, svelando l’esistenza di oltre 80 casi di abusi sessuali su minori in diverse parrocchie della città. Il dato più sconvolgente: le vittime erano tutti bambini provenienti da ambiente molto umile e deprivato in cui i genitori vedevano i preti come un supporto umano ai loro gravi problemi.
La storia, come tutti sanno, è vera e nel 2003 al Boston Globe fu assegnato il Premio Pulitzer di servizio pubblico reso per aver avuto il coraggio di investigare su un caso scottante e chiedere giustizia per tante innocenti vittime, dando il via ad un’inchiesta che in seguito si estese a livello nazionale ed internazionale, portando alla luce migliaia di casi in tutto il mondo.
Fin dall’inizio lo stile del film-inchiesta mira ad esaltare il buon giornalismo investigativo che giunge a risultati encomiabili nella ricerca della verità, difendendo la libertà di stampa e i valori democratici in genere contro ogni sopruso e ogni tipo di potere invasivo e condizionante.
Il cast degli attori è stato scelto con cura, anche se poche sono le opportunità offerte ai singoli interpreti per dimostrare la loro bravura, in un racconto corale in cui conta di più il lavoro di squadra sul grave caso al quale tutti stanno lavorando con impegno.
Queste caratteristiche rappresentano forse sia il pregio che il limite del film: continue riunioni, ricerche, interviste da un lato tengono desti attenzione e interesse degli spettatori, dall’altro non riescono ad emozionarli in modo intenso a livello umano, poiché poco spazio viene dato al racconto delle vittime e in particolare alle gravi conseguenze sulle loro vite, generate dal trauma infantile. Solo i dati sul numero dei minori coinvolti fanno inorridire. Né tantomeno si analizzano “le cause” di un fenomeno così esteso a livello mondiale.
Il film comunque stimola altre riflessioni sui soprusi subiti dai bambini in tutto il mondo, insieme a tante domande. Perché non si indaga a fondo sui minori migranti non accompagnati, in balia forse di esseri abietti per traffico d’organi, pedofilia e quant’altro? Perché non si parla mai di bambini-soldato e di armi costruite ad hoc proprio per loro? Perché non si interviene a livello internazionale per salvare tanti bambini da fame, stenti e malattie? Perché in molti paesi non ci sono scuole che insegnino almeno a leggere e a scrivere? E le spose-bambine? E così via, potremmo continuare a chiederci tanti “perché”, le risposte sono davvero poche. Altro che le strumentali polemiche sulla step-child adoption!
Giovanna D’Arbitrio