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16/11/24 ore

Cannes 2014. Anche i cani ungheresi, nel loro piccolo, si incazzano… e altre storie



Come quella di Timbuctù, di Abderrahmane Sissako che è il racconto dell’attuale realtà del Mali oppresso da un fondamentalismo islamico che pur con le proprie migliori intenzioni, non esita a prevaricare donne e uomini e che stenta a mettersi in discussione perfino davanti alla critiche degli Imam.

 

Fotografia e regia conducono direttamente l’immedesimazione dello spettatore negli ambienti e nelle vicende del film e soprattutto nell’orgoglio e nella dignità profonda che  traspare da ogni da ogni posa o movimento dei suoi protagonisti. L’Africa è  distintamente palpabile nei luoghi, nelle luci e nel vento delle sabbie che lambisce le oasi degli indigeni.

 

Con Mike Leigh si cambia latitudine, luce  e magia dei luoghi, con il biopic su uno dei più grandi pittori inglesi, Mr Turner, dedicato a Joseph Mallord William Turner (1775-1851). Tra i due autori in concorso pesa sicuramente, più del carattere nazionale, la scuola in cui si sono formati. Sissoko al VGIK di Mosca, la stessa per  Tarkowky e Sokurov, dove il racconto è tutto nell’immagine mentre Leigh, oggi direttore della London Film School , viene dal teatro.

 

 

Sicuramente all’altezza del personaggio il grande caratterista Timothy Spall, che qui interpreta, con un impegno fatto anche di grugniti, sguardi torvi e misantropia diffusa, la vita, gli amori e gli affari di un uomo con importanti problemi esistenziali riguardanti sia il suo lavoro che i suoi affetti. Fotografia e regia impeccabili non impediscono purtroppo al film di rimanere al livello di  un’opera di maniera e questo balza agli occhi proprio dal confronto con i veri capolavori originali dell’artista, sottratti temporaneamente alle gallerie di appartenenza, per essere riprese nel lungometraggio.

 

Captives è il triller psicologico di di Atom Egoyan con Rosario Dawson. E’ la storia di una bambina che scompare per otto anni. Alcuni indizi evidenziano però che è ancora viva. La polizia e i genitori cominciano ognuno la propria ricerca. Egoyan amalgama il dramma della tenera età indifesa e abusata con il poliziesco, commuovendo e stimolando una profonda riflessione, con la consueta maestria e profondità.

 

 

Tempo variabile dentro e fuori dal festival.

 

In uno dei quattro maggiori hotel (Martinez, Majestic, Carlton, Marriott) al ricevimento per la stampa internazionale accolta dalla principessa tailandese, si è sfiorata la rissa tra un gruppo di donne, rigorosamente in lungo come da protocollo, in attesa di raggiungere il buffet. Nessuno si è fatto male, men che mai gli uomini che si sono tenuti prudentemente a distanza di sicurezza dal focolaio di passione.

 

E' però l’ungherese White God, l’evento che irrompe sul festival monopolizzando l’attenzione generale. Sceneggiato e diretto  dal trentanovenne Kornél Mundruczó, già premiato nel 2008 a Cannes (Fipresci) che in questa sua decima regia descrive un mondo di perdenti e disillusi, dove il pedigree è un fattore determinante.

 

 

E' la storia di una tredicenne e delle disavventure che iniziano per il suo miglior amico, il cane Hagen, quando viene approvata una legge che impone una tassa esorbitante sui cani non di razza, i cosiddetti bastardi o meticci. I padroni meno abbienti sono così costretti ad abbandonarli per le strade della città. Ma ben presto i cani comprenderanno che gli umani non sono più i loro amici e gli si rivolteranno contro.

 

Il regista spiega così le sue intenzioni riguardo la sua ultima fatica:

 

E’ sempre molto  difficile  trovare il modo di raccontare in una nuova forma le cosiddette verità eterne.

 

In questo senso il mio incontro con l’opera del Nobel (2003) J.M. Coetzee stata un’esperienza rivelatrice e illuminante.

 

Mi sono naturalmente chiesto se aveva un senso fare un film utilizzando dei cani e più la cosa mi sembrava impossibile più mi sentivo ispirato. Volevo al contempo fare un film con una ragazzina come eroina principale. E’ diventata la storia di una ragazzina che perderà la sua innocenza proprio come il suo cane. Una storia a specchio nella quale non vorrei vedere nessuna delle trame senza l’altra.

 

Volevo evidenziare inoltre come parallelamente ai dubbi vantaggi della globalizzazione, il sistema delle caste si sia rinforzato.

 

Il senso di superiorità è diventato il principale privilegio e valore della civilizzazione occidentale ed è divenuto impossibile evitarne l’abuso.

 

Si, parlo proprio di noi perché facciamo parte di questa folla privilegiata.

 

E’ proprio questo atteggiamento che favorisce l’odio e che crea menzogne e semiverità.

 

Che sembra volere incessantemente addomesticare le minoranze mentre in realtà vuole distruggerle.

 

Che in maniera ipocrita nega le illegalità mostrando di non credere ne alla pace sociale ne alla possibilità di una coesistenza possibile.

 

Al posto delle minoranze ho voluto scegliere pertanto degli animali come soggetto del mio film, una specie derelitta che è stata una volta amica dell’uomo e che ora è costretta a rivoltarglisi contro pur di far valere la sua esistenza.

 

Volevo combinare il topos dei film di vendetta con il melodramma e la moralità delle favole in maniera dinamica, vivificante e sentimentale.

 

Il mio obbiettivo è che il pubblico sostenga Hagen affinché si ribelli e Lili perché comprenda che la ribellione è legittima.

 

Lo spettatore potrà così passare attraverso una purificazione e decidere di arrivare a una decisione: quella di non conformarsi a diventare un adulto bugiardo.

 

 

Chi è il Dio Bianco? Che significa il titolo del film?

 

Volevo far capire cheil cane è il simbolo dell’eterno emarginato per il quale il suo padrone è il suo dio.

 

Mi sono sempre interessato all’idea di Dio.

 

E’ veramente Bianco o ciascuno ha il suo dio? L’uomo bianco ha molte volte dimostrato che è solo capace di colonizzare e dominare. Questa posizione nasconde molte contraddizioni e per questo mi ha così appassionato.

 

Il film differisce in molti punti da quelli che hai realizzato finora. Qual’è il tuo specifico obiettivo qui?

 

Dopo 10 anni di lavoro ho sentito che un periodo della mia vita e della mia carriera era esaurito. Tender Son (il suo film precedente, ndr.) è stato la fase finale di quest’epoca. In un certo senso sono cresciuto essendo arrivato alla fine dei film sull’adolescenza.

 

Cominciavo a interessarmi a delle idee che esigevano una forma diversa di espressione. A causa del declino massiccio della cultura avevo molto chiaro l’obiettivo di rivolgermi a un pubblico più vasto che mi chiedeva nuove forme.

 

Lavorando ho incontrato molte questioni aperte e la necessità di non ripetere le stesse risposte mi ha stimolato.

 

Fino a che punto la situazione politica attuale in Ungheria è il contesto di questo film?

 

Il film è molto di più una semplice critica all’eterna Ungheria, quella nella quale esiste una minoranza che gestisce una maggioranza. Questo è vero in tutta Europa. La minoranza reclama il suo diritto al potere proprio come in una telenovela politica, in cui politici sono delle stars per le quali votiamo o ci asteniamo. Sono delle tendenze molto pericolose. Se non si fa attenzione un giorno le folle si metteranno in marcia.

 

Quale Budapest volevi dipingere?

 

Credo di aver voluto chiudere con i malinconici  discorsi post-sovietici sull’Europa dell’Est che hanno caratterizzato i nostri film degli ultimi decenni.

 

Volevo creare un’immagine nuova di Budapest che esprime il rapporto attuale della città con la sua storia.

 

Gli ultimi 40 minuti del film vediamo delle immagini sorprendenti, per quale motivo?

 

Sono i momenti in cui la folla si rivolta. Oggi la grande paura dell’Europa è che le masse si rivoltino. Per questo ho cercato delle immagini simboliche.

 

Vedere che cosa si può provocare quando ci si rifiuta di immedesimarsi nelle ragioni di un’altra specie o del campo avverso o di una minoranza.

 

Si tratta di un film moralizzatore che pone delle questioni morali e ritengo che lo spettatore debba arrivare a delle conclusioni di quel tipo.

 

Tuttavia è più importante per me che il cuore dello spettatore batta forte guardando il film.

 

Al party presso il padiglione ungherese che ha seguito la proiezione abbiamo fatto una chiaccherata con il regista riguardo al film.

 

Dato che ha dichiarato che questo è il suo primo film di genere ci sono dei riferimenti al cinema di Hitccock o al cinema horror più in generale?

 

A un primo livello è a un melodramma politico ed è una critica della società nella quale viviamo in Ungheria ma anche nel resto d’Europa. Non so dire esattamente quanti generi ho usato. Il film comincia come un Family movie, continua come un dog-action movie, poi come un film sociale e finisce come un thriller o un Hitchcock movie o uno Spielberg movie o monster movie  o un jurassik movie.

 

Qual’è la maggiore critica o malinteso del cinema occidentale verso quello dell’Est Europa?

 

Secondo me l’Est Europa è molto cambiato e lo ha fatto rapidamente negli ultimi 8-10  anni anche se in maniera piuttosto caotica da una parte pur rimanendo piuttosto antico al suo interno nell’altra, riguardo la libertà e la democrazia. La visione nostalgica e fuori dal tempo dell’era post comunista per fortuna, lo ripeto con forza, è finita.

 

Come ungherese e regista dell’Est Europa quale critica si sente di rivolgere a cinema dell’Ovest?

 

Non saprei, io sono un uomo dell’Est, dove sono cresciuto. Credo che le contraddizioni della società dell’Est siano le stesse di quelle dell’Ovest e che abbiamo ormai più o meno gli stessi problemi da risolvere.

 

Il primo applauso  della serata è stato per Hagen, il fotogenicissimo meticcio protagonista del film che prede possesso del palco subito prima della proiezione, scodinzolando vivacemente al guinzaglio dalla sua custode, orgoglioso del suo papillon che indossa con estrema nonchalance. Gli altri,quelli al cast al completo, partono già calorosi sui titoli di coda.

 

 

White God è piaciuto e piacerà perché è un ricco di contenuti e interessante stilisticamente per l’amalgama di generi che Kornell Mundriczo ha messo insieme.

 

Il risultato finale dell’operazione rimane però un po’ inferiore alle intenzioni dell’autore proprio a causa della complessità filmica dell’impresa.

 

In alcuni casi il volgere dal melodramma al thriller o dall’horror alla commedia familiare risultano così netti da provocare degli sbalzi di tensione che annullano la drammaticità di alcune fasi del film. Per fortuna la maggior parte del pubblico in sala è così coinvolta dal ritmo della storia, ricca di hitchcockiana suspense, dalla bellezza delle immagini di una Budapest inedita e dall’adeguatezza dei protagonisti (la giovanissima Zsofia Psotta su tutti) da non avere il tempo di riflettere sulle questioni formali.

 

White God sarà un successo internazionale grazie all’originalità estrema dell’impianto di una sceneggiatura spettacolare nonostante l’assenza di effetti speciali tipici dei generi incorporati.

 

Accompagnato dall’elegantissima moglie, tra i posti riservati al cast, c’era in sala il produttore ungherese Andi Vajna, nume tutelare dei 3 Rambo e 3 Terminator ma anche di Alan Parker e Verhoeven.

 

Uno che al box office ha parecchio fiuto sia Los Angeles che altrove; e che sa anche latrare se serve!

 

L’impatto è stato forte e un altro incubo si appresta a contendere la palma di campione di genere agli Uccelli ormai stracult di Hitchcock.

 

Vincenzo Basile

 

Cannes 2014, parte la rassegna francese di V.B.

 

 


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