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16/11/24 ore

12 anni schiavo


  • Adil Mauro

Allontanato dalla propria famiglia con una falsa proposta di lavoro, drogato, sequestrato, privato dei documenti che ne attestavano l'identità (e lo status di uomo libero) e infine venduto in Louisiana come uno schiavo fuggitivo della Georgia.

 

La storia di Solomon Northup, afroamericano nato libero nello Stato di New York e ridotto in schiavitù per 12 anni ha dell'incredibile, anche se al tempo (siamo nel 1841, vent'anni prima dell’inizio della guerra di secessione) non era infrequente che la “forza lavoro” destinata alle piantagioni del Sud venisse così recuperata.

 

Il terzo lungometraggio del quarantaquattrenne cineasta inglese Steve McQueen, vivida e accurata discesa agli inferi dello schiavismo (peccato originale degli USA insieme alla decimazione dei nativi americani), è anche il viaggio nell’anima di un uomo strappato agli affetti più cari (per 12 anni la moglie e i due figli di Solomon non ebbero sue notizie) che deve ricorrere all'astuzia per non soccombere alla brutalità dell'uomo bianco. Ne è documento esemplare l'interpretazione di Michael Fassbender nei panni del fanatico proprietario della piantagione di cotone Edwin Epps, il più crudele e sadico tra i padroni che Northup incontra durante la sua odissea.

 

Quella di affidare il ruolo principale ad un attore inglese e poco conosciuto (Chiwetel Ejiofor) è stata una scelta felice. Il tormento di Solomon non viene mai ostentato; oltre allo studio necessario per calarsi nella parte, con una recitazione asciutta Ejiofor ci restituisce lo spirito combattivo di un uomo che ha tentato la fuga più volte e non si è mai arreso davanti alle indicibili violenze vissute e all'impossibilità di potersi fidare di qualcuno.

 

Lo stesso Northup non è esente da lati oscuri. Il suo rapporto con la schiava Patsey (la “preferita” di Epps) è drammaticamente irrisolto; quando lei gli chiede di aiutarla a togliersi la vita per sfuggire ai ripetuti stupri del suo padrone, il cristiano Solomon rifiuta.

 

Nei confronti del pastore battista William Ford, suo primo padrone in Lousiana, Northup ha parole più che buone nonostante fosse anch'egli un convinto sostenitore della schiavitù. Il buon cuore di Ford (interpretato da Benedict Cumberbatch, lo Sherlock Holmes della recente serie BBC) viene evidenziato anche da McQueen, ma senza però calcare la mano sulle evidenti contraddizioni di un uomo di Dio che considerava comunque i neri esseri inferiori da redimere e salvare.

 

Tuttavia a McQueen l'aspetto religioso della vicenda sembra non interessare molto: l'uso strumentale che anche Epps fa delle Sacre Scritture non aggiunge spessore al personaggio di Fassbender che alla fine viene trasformato in una sorta di caricatura.

 

La forza di 12 anni schiavo è tutta nei dettagli: una fotografia eccezionale (la natura incontaminata e impassibile della Louisiana dove Northup si muove) e i tanti comprimari (su tutti la bravissima Lupita Nyong'o, l'attrice che interpreta Patsey) volti a ricreare un mondo di sopraffazione e sofferenza che ha coinvolto e stravolto le vite di milioni di esseri umani.

 

L’unico cedimento emotivo di McQueen contrassegna l'ultima scena; ma se pianto deve essere, che almeno sia catartico e liberatorio come quello che sgorga alla fine di un film che forse non garantirà ai suoi attori principali l'Oscar (a Hollywood già stravedono per l'accoppiata McConaughey-Leto vista nell'ottimo Dallas Buyers Club), pur potendo legittimamente aspirare – se c’è ancora un po' di giustizia a Los Angeles – almeno al premio per il miglior film.


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