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17/11/24 ore

The Rolling Stones, Sweet Summer Sun 2013, è ora Film



A Hide park, l’estate scorsa. 44 anni dopo quel volo di farfalle liberate sul palco all’inizio del concerto, che avrebbero dovuto sublimare la scomparsa di Brian Jones, avvenuta appena due giorni prima. Sullo stesso prato, diventato oggi l’immensa “O 2 Arena” di Londra, la più famosa e longeva Rock’n Roll band del mondo ha replicato il concerto inaugurale di quella che fu la loro Golden Age (1969-1974).

 

Quella con Mick Taylor per intenderci, l’enfant prodige del Brit Blues che a soli 17 anni prese il posto di Eric Clapton nella mitica Bluesbreakers Band di John Mayall. Per poi diventare, l’anno successivo, la lead guidar degli Stones.

 

Fortunati astanti solo i 100.000 consentiti dalla capienza della location ma chi non era tra loro si potrà rifare con il film che ne è stato tratto. L’occasione per vederlo in Italia in un centinaio di sale, in HD.

 

Come a Londra, un pubblico composito, intergenerazionale, dagli 8 agli 80 anni. Per i giovanissimi un Classico da non perdere, anche se della band hanno probabilmente solo sentito parlare; per gli altri un tuffo gioioso nell’eterna tormentata e turbinante giovinezza che le Pietre imperiture incarnano.

 

Nelle loro vite private come sui palchi, ovunque, da sempre.

 

Per l’anniversario dei loro primi 50 anni di carriera e di vita al massimo, tutti immancabilmente arzilli, sulla settantina e oltre e strenuamente rolling, come quand’erano poco più che teen ager. E non sono certo le droghe, come i maligni da sempre sospettano, a fargli da propellente.

 

 

Non fosse altro perché avvezzi alla qualità delle polveri di un tempo hanno smesso ormai da molti anni le vecchie consuetudini, se non per sopravvenuta virtù, per sopraggiunta raffinatezza palatale. Ma il mistero sulla vitalità di Jagger rimane, anzi più gli anni passano, più si infittisce.

 

Di come possa continuare a zompettare instancabile, ininterrottamente per più di due ore, cantando (e ricordandoseli) decine di pezzi e a giocare a provocare continuamente il suo pubblico. Gestendo contemporaneamente da solo un’intera orchestra più due gruppi corali.

 

Sarà forse lasua Simpaty for the Devil calorosamente ricambiata dal Destinatario? Ingenua come ipotesi ma certo non si sa cos’altro pensare a proposito di questo inspiegabile fenomeno. Umano prima che musicale.

 

La scaletta si rivela subito incendiaria e veri fuochi d’artificio contribuiscono alla miscela esplosiva che dall’inizio, Start me up (what else?), travolge le ladies e i gentleman, alcuni con children al seguito ma tutti in entusiastica standing devotion.

 

Eppure, vien da chiedersi, le canzoni son sempre le stesse. Anzi no. Quando, dopo il flash iniziale dovuto al primo riff di Richards l’ascolto si fa più attento, ci si accorge che non è esattamente così. C’è del nuovo ma… cosa? È semplice poi in fondo: è bastato rinfrescare gli arrangiamenti, aggiornandoli senza privarli della grinta originale. Come? Rinnovando i raccordi tra le strofe o i dettagli di alcuni ritornelli con sonorità contemporanee per restituire ai pezzi la loro intramontabile presa e la irresistibile carica rock che rende quasi impossibile ascoltarli senza in qualche modo dimenarsi, se non proprio ballare. Tutto questo riemerge prepotente a possedere l’anima, la pancia e il cuore dell’ascoltatore.

 

Ti eri ripromesso di non farti fregare da quei quattro furbastri, pensavi non potessero più farcela a coinvolgerti nel loro vecchio gioco, ormai sgasato dal successo ininterrotto, improponibile viste le conseguenze dell’ormai pluridecennale acquisita ricchezza, dall’impotenza creativa incapace di sfornare un vero hit, una nuova Brown Sugar, che so.

 

Ed è solo allora che li riconosci. E ti arrendi. Sono sempre loro. E ti gustano da morire, non puoi proprio farci niente. E lo show va avanti, ricco di ospiti e comprimari all’altezza dell’evento.

 

A cominciare da Lisa Fisher, la black panter debordante dal ruolo di corista nel quale è consegnata, appesantita nella forma fisica, e ci viene in mente Etta James, ma evolutasi nella sostanza di una voce che oggi può competere con quella della sua illustre mentore,Tina Turner.

 

 

Superandola perfino, grazie agli apici tonali di cui è consapevole e capace e lo dimostra uscendo subito dalla mischia dei musicisti di contorno per sfilare e duettare con il super front men, sulla lunga pista che attraversa la folla, in una torrida Gimme Shelter.

 

Chuck Leavell a seguire, con il suo piano elettrico strapazzato alla Jerry Lee Lewis che incanala la tensione e precede l’entrata on stage di Mick Taylor. Il suo intervento, attesissimo, è catalizzante.

 

Un suo a solo rischierebbe di oscurare la prestazione dei colleghi chitarristi, così invece la lunga scala blues che gli viene concessa dai Glimmer Twins finisce per diventare non solo un omaggio al Blues ma un gioiello musicale di pregiatissima fattura.

 

Ma più delle note sono gli sguardi a raccontare l’esito di una vicenda che comportò la sua esclusione dalla band. Ufficialmente perché all’epoca non gli vennero riconosciuti i crediti di alcune sue partecipazioni ma più verosimilmente per la sua distanza sia dal Glamour tutto parties e jet set frequentato da Jagger, sia dalle notti brave amate da Keith. Essenzialmente perché la sua maestria e il suo talento cominciavano a ridimensionare il carisma di Keith, grande inventore dei riff travolgenti che ne hanno fatto la fortuna certo ma piuttosto mediocre come strumentista, rispetto a quello che ci si può aspettare da una super star del suo rango.

 

Cosa sarebbero stati gli Stones con Taylor al posto di Ron Wood non è dato sapere. Il senno del poi nel Rock è quanto mai futile e velleitario. Ma si può ascoltare ciò che diventano quando lui è sul palco.

 

E gli sguardi tra i due diventano eloquenti. Keith si fa in disparte lasciando la scena all’altro che sembra domandargli, guardandolo dritto degli occhi, se ne valeva la pena. La risposta arriva riascoltando Sway o If you really want to be my friend e più di tutte Can you hear me knockyng in cui citando, con la consueta eleganza, il virtuosismo di Santana, la chitarra di Taylor fraseggia con Bobby Keys al sax in un indimenticabile, caliente connubio melodico che si vorrebbe non finisse mai.

 

Ma tutto scorre, inarrestabile, grazie al sostegno fornito dal batterista. Il più incompreso della storia del R.’n R.

 

Una delle colonne della critica musicale nostrana ha liquidato la performance londinese di Charlie Watts scrivendo che “si è limitato a non strafare”.

 

E qui cascano gli asini, nostrani e foresti.

 

Watts è, e lo dimostra in ogni esecuzione, un grandissimo musicista che ha scelto come strumento la batteria. Tutti sanno che, prima dell’arruolamento negli Stones, si forma alla corte di Alexis Korner, il jazzista bianco più in auge in Inghilterra tra fine dei ’50 e buona parte dei ’60. Eppure quanti riconoscono e apprezzano la misura con cui ha saputo arricchire il drumming rockettaro con quella ricchezza di sfumature e accenti jazz appena percettibili, il rigore e l’essenzialità con cui è stato capace di dinamizzarlo lungo tutta la sua militanza negli Stones? E quei ritardi sul rullante, eretici per un batterista preciso comme il faut , che ha avuto il coraggio e la ragione di imporre a stilemi della sua originalissima e inconfondibile pulsazione.

 

 

È vero, non si conosce un solo suo a solo e nell’epopea di quel genere musicale gli a solo di batteria sono stati e rimangono un must per l’identità di ogni drummer. Ma è anche vero che non ci sono due rullate identiche nella sua produzione o una sola scelta percussiva discutibile tra le possibili, pur nell’essenzialità, quindi anche nei limiti, dello strumento usato. Quali mirabolanti acrobazie tecniche su quante superaccessoriate batterie “monstre” con decine di tamburi e altrettanti piatti possono offuscare l’incanto della musicalità offerta dalla Gretsch “Round Badge” fine anni ’50, di soli quattro elementi, da sempre suo cavallo di battaglia?

 

Sono varie le componenti che fanno della Band la leggenda che è oggi. Pur con i molti alti e bassi creativi e con le defezioni eccellenti. Gli Stones hanno smesso di esserlo sul serio nel ’94, con la dipartita del bassista originario, Bill Wiman, oggi settantasettenne leader della propria band, i Rhythm Kings.

 

La base ritmica essendo la natura portante della loro autenticità ma soprattutto del loro groove. It’s only Rock’n Roll certo and we like it, questo è sicuro, ma quale evento musicale, individuale o collettivo, ha avuto un’epopea paragonabile alla loro?

 

Anche al cinema è stato un successo. L’ennesimo.

 

Vincenzo Basile

 

 


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