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17/11/24 ore

Finalmente l'America! Una controinterpretazione de 'La gabbia dorata'



Dal Guatemala al Messico agli Stati Uniti. Dice il regista del film qui considerato: "Ho voluto mettere in discussione le barriere sociali, nazionali e razziali. Siamo tutti uguali, abbiamo tutti le stesse esigenze, lo stesso sogno di una vita migliore. La migrazione è un fenomeno naturale, mentre i confini sono artificiali, sono stati creati dagli stessi esseri umani in tempi relativamente recenti".

 

Dar voce ai migranti, e chi non è concorde? L'artificialità dei confini? Una frase fatta. Ma quel che pare emergere (e che è ribadito dalla critica) è che gli Stati Uniti siano un'illusione, siano anzi 'La gabbia dorata' cui allude il titolo del film, il punto di arrivo della storia. Sospetto pertanto che Diego Quemada-Diez non sarebbe affatto d'accordo con la mia lettura del finale del suo film.

 

Il bello dell'arte, e dunque dell'arte cinematografica, è del resto anche, come è noto, che una volta varata un'opera il suo autore (a parte il copyright) non ne sia più "proprietario", non ne detenga più necessariamente il monopolio interpretativo. Ma cerchiamo di dare un senso meno criptico a queste prime notazioni.

 

Nell'ultimo fotogramma torna per l'ennesima volta una nevicata artificiale in un cielo buio, che segue due scene: quella di un ragazzo intabarrato in un giaccone forse appena acquistato, solo, ripreso frontalmente nella notte di un posto che sappiamo essere Los Angeles; nella precedente egli raccoglie il grasso caduto per terra, tagliato via nella lavorazione della carne in una grossa fabbrica dove si preparano i pezzi da imballare per la vendita.

 

Quanto grasso, quanti brandelli sanguinolenti, e quei lavoratori in una sorta di catena di montaggio disumanizzante fatta anziché di bulloni e ingranaggi di parti diverse di bovini uccisi. Eppure, per me, c'è civiltà, c'è ordine, in quel macello. C'è ciò che non si vede ma avviene ovunque, banalissimamente, non solo negli Stati Uniti.

 

E forse quel ragazzo guatemalteco, "della zona 3" (uno dei quartieri centrali della grande Città del Guatemala, ma di un'area del centro assai malmessa e povera a giudicare dall'inizio della pellicola...), diverrà Presidente. La jaula de oro (La Gabbia dorata) è la storia di alcuni adolescenti in fuga dal degrado disperante del Guatemala, che cercano di attraversare la frontiera del Messico, per risalirlo sino a entrare negli Stati Uniti.

 

"Per cercare fortuna". L'opera di esordio di Quemada-Diez, già collaboratore di Ken Loach e Oliver Stone, è efficace e a tratti emozionante nel ritrarre con stile realistico il viaggio pieno di insidie, di separazioni, e infine di tragedie, di questi quindicenni. Uno di loro è un indio dei chiapas, minoranza notoriamente discriminata del Messico meridionale. Si chiama Chauk (Rodolfo Dominguez), e, alfabetizzata o meno, non parla spagnolo.

 

Il film è anche la storia delle difficoltà di comunicazione, delle diffidenze e solidarietà, dei sentimenti forti progressivamente instauratisi fra questi ragazzi, che reagiscono col desiderio di trovare un destino migliore rispetto alla sorte loro riservata dall'essere nati in un contesto di bidonville guatemalteche, di casermoni di latta, e che passati in Messico cercano di far fronte alle violenze delle forze dell'ordine che tentano di impedire l'emigrazione clandestina, dei rackets che organizzano i viaggi della speranza, di gruppi di veri e propri banditi che sequestrano e derubano.

 

Momenti fra i più delicati sono quelli dei protagonisti che lanciatisi in un'impresa da adulti, vengono ritratti in comportamenti consoni alla loro età, si sfidano in gare di equilibrismo lungo i binari di decrepite strade ferrate centroamericane, si lasciano ammaliare da un trenino elettrico che si sposta in un manto nevoso (ma la neve cosa rappresenta nel film? Simboleggia forse ciò che è opposto alle condizioni ambientali e climatiche in cui vivono i ragazzi?), si scatenano in un villaggio che li ha accolti e non respinti nel corso del loro infinito viaggio in una irruenta danza ritmata da sonorità quasi tribali. E belle sono le numerose riprese sulle tettoie di questi treni-merci che trasportano abusivamente operai, contadini, e probabilmente persone in fuga da altre desolanti realtà.

 

L'ultimo segmento del film, richiamato all'inizio di queste note, suscita quasi ribrezzo, sembra volutamente suscitarlo. Tanta strada, e poi? Per finire a manipolare carne e grasso e sangue in quella agghiacciante fabbrica americana. Eppure, se le antipatie ideologiche non si interpongono, ci si può aprire alla speranza per una nuova vita, quella di un giovane che diverrà adulto anche anagraficamente in un mondo che certo non sarà perfetto, che è anzi altamente imperfetto e contraddittorio e pieno di ingiustizie.

 

Ma rimane un mondo capace di accogliere e di dare spazio. Per raggiungerlo è valsa la pena di fare tanta strada, a costo di tante sofferenze con e per i propri compagni. Bravo Juan (Brandon Lopez). Anche senza documenti.

 

Giovanni A. Cecconi


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