Il cinema documentaristico sembra avere ritrovato negli ultimi anni una vitalità perduta. L'impatto della crisi economica, il fenomeno migratorio, non potevano non suggerire ad autori sensibili la presa diretta di una umanità sofferente, in cerca di espedienti per sopravvivere a questi tempi difficili.
Una sorta di neorealismo non elaborato con intrecci narrativi ma ritratto per come è. Fra gli autori italiani i nomi di Andrea Segre e di Gianfranco Rosi (vincitore all'ultimo festival di Venezia) sono fra i più rappresentativi. Premiato con l'Oscar di miglior film documentario e solo da pochi mesi proiettato nelle nostre sale, è da non perdere la produzione britannico-svedese Sugar Man (2012).
E' questo il titolo di un brano di un cantautore di Detroit del quale viene raccontata la vicenda per tanti versi paradossale e misteriosa. Il suo nome è Sixto Rodriguez, e il suo caso è quello di un chitarrista e singer di un certo talento dei primi anni '70 del secolo scorso il quale, sostanzialmente negletto nella sua patria statunitense, diviene una sorta di mito musicale nel Sudafrica dell'apartheid per un incrocio di casualità.
Il merito va soprattutto al contenuto dei testi dei pezzi di Rodriguez, liriche che raccontano di ingiustizia, povertà, emarginazione, ribellione, e che una volta diffusisi in Sudafrica vengono per così dire percepiti e rifunzionalizzati in una chiave protestataria e antiregime nella realtà di quel paese. Bendjelloul, il regista, procede con una serie di interviste a discografici, a negozianti di dischi, a amici di Detroit, alle tre figlie di Rodriguez.
Ciascuno racconta aspetti particolari della strana carriera e della personalità del cantautore, con immancabile affetto, e stima per le sue qualità musicali e umane. Nell'ultima parte, a essere intervistato è lo stesso Rodriguez. Lo vediamo anziano, ancora a Detroit, nella modesta casa di quaranta anni prima.
Una pellicola tenera, minimalista, ma anche con un tocco di ironia (per il contrasto tra le delusioni americane e il successo quasi beatlesiano che Rodriguez incontra in una tournée sudafricana negli anni '90) e di denuncia. Costruita bene, anche perché nella prima parte si ritrae il protagonista quasi come un artista maledetto scomparso nel nulla, facendone pian piano riscoprire più ottimisticamente la storia.
Chi scrive non acquisterebbe un album di Rodriguez, perché alla semplice efficacia dei testi delle sue canzoni non corrisponde una adeguata originalità musicale (Rodriguez richiama Dylan, senza avvicinarcisi neppure lontanamente). Ma la sua figura di uomo di generoso disinteresse, mansuetudine non inerte, impegno e insieme disincanto risulta suggestiva e degna di ammirazione.
Giovanni A. Cecconi