In una Los Angeles ossessionata dal lusso e dalla mania di condividere tutto attraverso i social network, un gruppo di adolescenti facoltosi saccheggia le case delle celebrità trafugando vestiario e gioielli per il valore di tre milioni di dollari. di Francesca Garofalo
In una Los Angeles ossessionata dal lusso e dalla mania di condividere tutto attraverso i social network, un gruppo di adolescenti facoltosi saccheggia le case delle celebrità trafugando vestiario e gioielli per il valore di tre milioni di dollari.
Questa in breve la trama di Bling Ring, ultima creazione di Sofia Coppola. Ma come si può amare/odiare un film se non si amano/odiano i suoi protagonisti? Il rischio di far apparire questi ragazzi degli eroi e le loro “gesta” qualcosa da emulare, ha fatto fare alla Coppola una scelta registica audace che l’ha portata inevitabilmente fuori dai binari.
La precisa volontà di non creare nessun coinvolgimento emotivo del pubblico nei confronti dei personaggi ha contribuito ad annullare ogni genere di coinvolgimento nei confronti dell’intera storia. Quando non c’è amore, né odio, allora è indifferenza. Ed è sconfortante pensare che le fatiche di una regista premiata ed apprezzata come la Coppola possano scatenare questo non-sentimento.
Siamo ben lontani dall’affascinante e macabra decadenza de “Il giardino delle vergini suicide”, dalla poesia metropolitana di “Lost in Traslation” e dai Leoni d’ Oro di “Somewhere”; in Bling Ring manca un ingrediente fondamentale che fa la differenza tra l’impasto di un film e quello di un servizio giornalistico: l’analisi psicologica del personaggio e dei motivi che hanno scatenato le sue perversioni.
Pochi i momenti dedicati alla celebrazione di questo aspetto, se non fosse per l’abilità dei giovanissimi Israel Broussard, Emma Watson, Katie Chang, Taissa Farmiga e Claire Julien che, nonostante una sceneggiatura veramente minimal, hanno fatto del loro meglio per immedesimarsi e trarre ispirazione da quello che è un avvenimento realmente accaduto.
Pare che la Coppola sia rimasta talmente affascinata dall’articolo apparso su Vanity Fair a proposito di questa banda da volerne fare un film, ma non ha messo in conto che il rischio di creare un prodotto freddo e arido come gli stessi elementi che la compongono era in agguato dietro l’angolo.
Nulla si può dire a proposito delle sue abilità tecniche e dell’ interessante alternarsi di ritmi veloci e sequenze più lunghe, ma se di un film si tratta, come lei stessa sostiene, è necessaria la presenza di un’anima, positiva o negativa che sia. In questa occasione pare di riuscire a stento a vedere l’involucro.
Assai intriganti le atmosfere create dalla scenografa Anne Ross. Una Los Angeles inondata dal sole, fatta di sfavillanti ville dorate e lussuose scatole beige nell’esclusiva valle di Calabasas. Per la Coppola si tratta anche del primo esperimento in digitale.
I direttori della fotografia Harris Savides e Christopher Blauvelt hanno dato vita ad uno stile perfettamente in linea con le esigenze del film. Sofia Coppola è stata in grado di riprodurre un mondo in cui la cultura dominante riesce ad influenzare ragazzi ai quali le famiglie non hanno trasmesso valori in cui credere, però ci risiamo, una questione del genere andrebbe presa con le pinze. La linea di confine tra il non voler condizionare lo spettatore e sfociare in una semplice sterile cronaca dei fatti è decisamente sottile.