di Gianni Carbotti e Camillo Maffia
Avrà avuto al massimo ventidue, ventitré anni il tassista che, sfrecciando lungo via Salviati, ha investito una ragazza rom più o meno della stessa età. L'incidente è accaduto davanti al campo nomadi: le famiglie, com'è purtroppo comprensibile, sono uscite inviperite, e c'era da temere che qualcuno passasse a vie di fatto. Ma è stato il fratello della ragazza a interporsi fra l'uomo e i residenti del campo: “È stato un incidente, nessuno lo tocchi”, ha detto…
A sua volta, l'autista piangeva sconvolto, mentre il cliente che sedeva sul taxi era fuggito in preda al panico, temendo probabilmente che, oltre al gravissimo incidente, avrebbe assistito anche a un linciaggio. Ma questo non è avvenuto. “Nessuno dice queste cose”, ha commentato il rom, anche lui giovane, che aveva avuto la doppia prontezza di soccorrere la sorella e impedire qualsiasi forma di ritorsione. “Si parla degli zingari solo se fanno qualcosa di male, non se si comportano in maniera civile come in questo caso”.
“Non ce l'ho con quel ragazzo, era sconvolto”, ci ha detto il padre della ragazza investita, che ha aggiunto: “Anche io sono un autista, porto il furgone. Sono cose che possono succedere. Quello però che ci ha amareggiati è il fatto che nessuno abbia raccontato questa vicenda”.
Incredibile ma vero. Sappiamo che se fosse stato un rom alla guida e avesse investito una ragazza italiana, per di più in piena campagna elettorale, il fatto avrebbe avuto rilievo nazionale com'è avvenuto in passato: il battage, la fanfara, le rappresaglie e i politici di destra a invocare il pogrom. Ed era prevedibile, purtroppo, che laddove fosse accaduto l'inverso i media non avrebbero dato la stessa risonanza.
Ma il silenzio assoluto sulla vicenda, come se fosse stato semplicemente schiacciato un insetto, no, questo è incredibile perfino per chi, come chi scrive, segue la tematica ormai da diversi anni. Ed è emblematico non solo del livello d'inciviltà, razzismo e barbarie che serpeggia nel nostro Paese o di quello miserabile e imbarazzante del nostro sistema mediatico, ma anche del fatto evidente che ci sono, oggi, in Italia tutte le condizioni per l'avvento di un nuovo totalitarismo.
È un bene che non ci sia neppure un politico capace, o si prenderebbe lo Stato nel giro di dieci minuti; e se mettessero i rom sui camion, dicendo che li portano presso altri campi dove lavorano invece di starsene “con le mani in mano a spese nostre” (ad esempio), il nuovo regime riceverebbe il plauso dell'intera cittadinanza.
La ragazza ha solo ventitré anni e, con buona pace degli stereotipi, stava uscendo per andare a consegnare dei curriculum vitae; lavora in una pizzeria, ma il suo sogno è fare la barista. “Non m'interessano risarcimenti”, ha commentato suo padre, “ringrazio Dio che non sia morta”. È stata condotta in ospedale insieme al tassista, il quale doveva essere sottoposto ai vari test. Ma a detta dei testimoni dell'accaduto non sembrava ubriaco o alterato; peraltro, erano le due del pomeriggio.
Lei si è quasi spaccata la testa: sbalzata dall'impatto con il taxi, è stata sbattuta violentemente contro il Muro dell'Apartheid. Si tratta di una lunga fila di piloni di cemento, voluta dal “Sindaco dei Diritti Umani” Ignazio Marino e brillantemente realizzata, all'epoca, dal vicecomandante Antonio Di Maggio, che fu imposta attorno al campo di via Salviati per delimitare l'area del ghetto.
La motivazione ufficiale era quella che bisognava impedire il parcheggio dei furgoni, o qualche altra stupidaggine dello stesso livello. Fatto sta che la ragazza non è la prima vittima. Già un'anziana donna, infatti, era morta a causa dell'attesa prolungata dei soccorsi, dovuta al fatto che l'ambulanza non riusciva ad accedere al campo proprio a causa dei piloni, i quali recentemente sono stati spostati dall'altro lato, come la gobba di Igor dentro “Frankestein Junior” ovvero senza alcun senso, con quel tocco tipico dell'attuale governo della Capitale: un'amministrazione che, in buona sostanza, o non agisce o lo fa in modo del tutto inconsulto. Ad ogni modo, se non fosse stato per i blocchi di cemento, la ragazza sarebbe caduta sull'erba del prato.
"Sono uscito come stavo: in pantaloncini e maglietta, per cercare di rianimare mia sorella”, ha raccontato ancora il fratello. “Ho avuto il sangue freddo d'interpormi tra gli altri rom e l'autista, e di praticarle un minimo primo soccorso: la respirazione artificiale, metterla in una posizione in cui non venisse soffocata dal sangue, insomma gestire la situazione. Poi sono svenuto”.
L'incidente è avvenuto il due gennaio: da allora la ragazza è in coma, ancora in prognosi riservata. Ha riportato un grave trauma cranico, con un imponente versamento di sangue nel cervello. I medici, che sperano nel riassorbimento della emorragia, non possono garantire né che sopravviverà né che non avrà danni permanenti; è possibile che dovranno praticarle una tracheotomia. In questo momento, dunque, distesa nel letto di un ospedale della Capitale, c'è una ragazza che non-esiste.
È sospesa tra la vita e la morte: non è né viva né morta, e come il proverbiale albero della foresta sul quale ci s'interroga se faccia o meno rumore quando cade laddove nessuno possa sentirlo, allo stesso modo la sua tragedia è tanto ignota che questo suo oscillare fra essere e non essere nel mondo è così distante dal mondo stesso da rendere la situazione un rompicapo ontologico. Perché qui le cose sono due: o la ragazza non esiste, nel qual caso la questione si elimina da sé; oppure esiste, ma allora le responsabilità più gravi non sono neanche quelle di chi ha involontariamente messo a rischio la sua esistenza, bensì di quegli organi d'informazione che hanno scelto deliberatamente di negarla per ragioni etnico-culturali.
Negli stessi giorni, infatti, la stampa ha riportato puntualmente altri incidenti d'auto verificatisi a Roma di maggiore e minore gravità. In un Paese in cui la cronaca, e soprattutto quella locale, viene servita a colazione pranzo e cena con l'evidente fine di distrarre le masse, non c'è un episodio che possa descrivere meglio di questo le logiche su cui si fonda il nostro sistema mediatico.
Se la ragazza non dovesse farcela, benché con tutto il cuore ci auguriamo invece che sopravviva e che possa rimettersi presto, per lei non scatterà il “contatore del femminicidio” che orna il Tg2 come tocco di neo-boldrinismo scenografico. Né saranno intervistati i parenti affinché siano ingiunti secoli di carcere allo smarrito tassista. No: ciascuno, nel teatrino mediatico, deve fare la propria parte – soprattutto i feriti, i morti e, in generale, le vittime.
Solitamente, chi è vittima di un incidente deve prestare il decesso alla retorica sull'omicidio stradale; la donna vittima di un uomo è d'obbligo sia strumentalizzata per il bombardamento mediatico sul femminicidio; l'uomo vittima di una donna, la donna vittima di una donna e l'uomo vittima di un uomo, semplicemente, non hanno parte nello spettacolo, al provino si sono sentiti dire: “Grazie, le faremo sapere” e perlomeno sono liberi da impegni.
Ma i rom invece hanno una sorte del tutto particolare, perché sono stati gratificati da ben due ruoli. Sono infatti sia carnefici funzionali alla retorica di destra sulla sicurezza sia vittime prestate alla retorica di sinistra sull'accoglienza. Non possono quindi interpretare tre ruoli come Peter Sellers nel “Dottor Stranamore”.
La morale della storia è che neppure dinanzi alla tragedia a questo popolo è concesso d'avere voce, nemmeno in un trafiletto: la vittima sacrificale è stata respinta dal dio farfugliante, cieco e idiota che gorgoglia e bestemmia sul suo trono, come l'Azatoth dei racconti di H. P. Lovecraft.
Soltanto quando, come purtroppo è accaduto in passato e a chiunque può succedere, capiterà a un rom d'investire qualcuno, allora il dio gradirà il sacrificio offerto: spalancherà le sue fauci, vomitando servizi su servizi, comizi su comizi, speciali su speciali, “circondato dalla sua inetta schiera di danzatori ottusi e amorfi e cullato dal sottile, monotono lamento d'un flauto demoniaco stretto da mani mostruose” (1)
(1) H. P. Lovecraft, L'abitatore del buio
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