A 37 anni da quel tragico giorno, si attende di conoscere la verità giudiziaria sulla sua morte. Giorgiana è diventata quindi, suo malgrado, un simbolo di tutte le vittime dalla violenza di Stato legata ad un torbido passato.
di Andrea Maori
(estratto da Quaderni Radicali 110)
Nel 1977, divampò un conflitto politico e culturale durissimo ramificato in tutti i settori della società italiana. La risposta dello Stato fu una sua involuzione poliziesca, autoritaria, con una progressiva diminuzione delle libertà costituzionali ed un ampliamento della discrezionalità dell’azione delle forze di polizia.
L’abuso del ricorso a reati associativi o di pericolo presunto, costituì il presupposto per l’ampliamento di una normativa emergenziale sull’ordine pubblico che non si è mai interrotta. In quegli anni, in nome dell’emergenza terrorismo, ci fu una progressiva diminuzione delle libertà costituzionali. Si calcola che solo in quell’anno ci furono qualcosa come quarantamila denunciati, quindicimila arrestati, quattromila condannati a migliaia di anni di galera, e poi morti e feriti, a centinaia.
Nell’ambito quella normativa, emblematica fu la c.d. “Legge Reale”, che ampliava la possibilità per la polizia a sparare non solo in presenza di violenza o resistenza ma anche, qualora se ne ravvisassero altre necessità operative. La richiesta di abrogazione di questa legge venne fatta propria dai Radicali all’interno di un pacchetto referendario di 8 otto quesiti la cui raccolta delle firme fu avviata proprio nel 1977. Per i comitati referendari, si trattava di dare una svolta con un ritorno alla legalità costituzionale e al rispetto dei più elementari diritti civili dei cittadini.
I fatti del 12 maggio 1977, giorno in cui si consumò l’omicidio di Giorgiana Masi, furono esemplari del clima politico che si respirava in quel periodo in Italia. Quel giorno si tenne a Roma in piazza Navona una manifestazione promossa dal Partito Radicale per festeggiare il terzo anniversario della vittoria al referendum sul divorzio e per promuovere la raccolta firme sugli 8 referendum. La manifestazione non fu autorizzata a seguito di un’ordinanza prefettizia emessa il 22 aprile che vietava a Roma tutti i raduni pubblici da quel giorno fino a tutto il 31 maggio. Più di un mese durante il quale le libertà civili erano, per decreto, fortemente limitate.
L’unica manifestazione consentita a Roma, durante tutto il periodo, fu quella sindacale di piazza san Giovanni in occasione del Primo Maggio. L’ordinanza prefettizia fu emessa il giorno dopo una sparatoria nella città universitaria tra agenti di polizia e manifestanti dell’area di Autonomia Operaia che si concluse con l’uccisione dell’agente Settimio Passamonti, di 23 anni, il ferimento di quattro suoi commilitoni e della giornalista Patrizia Berni, corrispondente della CBS.
In quei giorni a Roma si verificò una lunga serie di atti di violenza politica che andavano da danneggiamenti a cose, a rapine – giustificate prevalentemente come “espropri proletari” – a pestaggi verso avversari politici, a telefonate minatorie. Il grave episodio della morte dell’agente Passamonti fu il motivo scatenante l’emanazione dell’ordinanza come misura emergenziale.
Il provvedimento, preso dal comitato interministeriale per la sicurezza presieduto dal Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, sostenuto – malgrado alcune perplessità iniziali – dal ministro dell’Interno Francesco Cossiga, venne energicamente sostenuto dal Pci che riteneva di non trovarsi “più di fronte a turbamenti anche violenti dell’ordine, ma a un criminoso assalto armato allo Stato e alla società”, chiedendo apertamente “fermezza, ordine, sicurezza nella democrazia.”
Nonostante il divieto, i promotori confermarono la convocazione della manifestazione per denunciare il restringimento degli spazi di agibilità politica e il pesante clima repressivo, favorito da un governo d’emergenza, cosiddetto della “non sfiducia” perché, pur essendo un monocolore democristiano guidato da Giulio Andreotti, si reggeva grazie all'astensione dei partiti del cosiddetto “arco costituzionale”, compreso quindi il PCI.
Secondo i promotori, la manifestazione sarebbe dovuta essere rigorosamente nonviolenta, costituendo altresì un’occasione importante per informare i cittadini sui referendum rispetto ai quali si stava per concludere una difficile raccolta di firme. Di fronte al continuo divieto del Ministro dell’Interno, i Radicali decisero di rinunciare ad ogni caratterizzazione politica e annunciarono che ci sarebbe stata solo una festa musicale, senza comizi e interventi politici.
Il centro di Roma fu completamente militarizzato e molti cittadini vennero caricati, respinti, picchiati. Le attrezzature di Piazza Navona, luogo tradizionale delle manifestazioni radicali in quel periodo, vennero smontate a forza e gli organizzatori vennero portati via di peso. Alcuni fotografi vennero picchiati, anche selvaggiamente come successe ad un fotoreporter de «Il Tempo» Rino Barillari, o a Sandro Marinelli de «Il Messaggero» mentre Rudy Frei, che lavorava per «Panorama», non solo venne malmenato dalla polizia, ma altresì costretto a consegnare il rullino impressionato.
Nel clima di quei giorni, di omologazione totale dell’informazione, i fotoreporter si vedono respingere il loro lavoro dai giornali per i quali lavorano abitualmente. Il clima è tale che solo Lotta Continua, il giorno dopo pubblicò le foto di Tano d’Amico. Mentre nelle strade sono in corso gli scontri e i parlamentari radicali protestano alla Camera contro le aggressioni e le violenze della polizia, impegnata anche in forme decisamente irregolari, avviene l’uccisione di Giorgiana Masi e il ferimento a una gamba di Elena Ascione: durante una carica le due ragazze furono raggiunte da proiettili sparati da Ponte Garibaldi dove erano attestati poliziotti e carabinieri...
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