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16/11/24 ore

Stanzani, il ricordo di Gianfranco Spadaccia



Ho conosciuto Sergio, come Marco Pannella, come Franco Roccella, quando sono entrato nell'università, un secolo fa' ormai, nel lontano 1953, e lui era già ingegnere, si era stabilmente trasferito da Bologna a Roma e aveva cominciato a lavorare anche se ancora si occupava dell'Unione Goliardica Italiana, per conto della quale era stato il primo Presidente dell'UNURI, l'organizzazione rappresentativa degli studenti universitari italiani.

 

Due anni dopo, nel 1955, ci ritrovammo insieme a tanti altri nel comitato costitutivo del Partito Radicale. Era il riconoscimento a una generazione che avevano saputo nell'Università, a differenza di quanto accadeva nel paese, rendere maggioritaria una organizzazione laica e davvero liberale.

 

Da allora è cominciata un'amicizia che è durata una vita. Condivido con tutti il debito e i motivi di gratitudine comuni nei suoi confronti. Ma ho in più un debito personale di riconoscenza. Negli anni '66 e 67 accettò di presiedere una commissione per lo statuto in vista del primo congresso che avevamo deciso di convocare dopo la scissione del gruppo del Mondo.

 

Era il dirigente di una industria pubblica, quindi molto impegnato. Ma nei fine settimana organizzò dibattiti, seminari, confronti fra noi. Ne nacque nel giro di pochi mesi quello statuto che giustamente Pannella ha definito una "carta teorica", la carta di un partito liberale e libertario, alternativo al modello del centralismo democratico come al modello del partito organizzato per correnti.

 

“Quando divenni segretario del partito nel 1967 e nel 1968, fece parte del consiglio federale e , se non ricordo male, ne fu per un certo periodo anche presidente. Per me in momenti di difficoltà e di solitudine (nel '68 tutti i giovani che sull'onda del divorzio avevano preso a frequentare Torre Argentina si erano allontanati e trasferiti prima nelle Università occupate e poi in molti movimenti extraparlamentari) fu un importante punto di riferimento, un interlocutore attento, un elemento di sicurezza. Era il suo modo di non considerare conclusa la sua straordinaria esperienza universitaria, di mantenere i contatti con noi e con le nuove generazioni, di non rimanere estraneo ai nostri eventuali fallimenti come ai nostri eventuali successi.

 

Una decina d'anni dopo l'ho avuto come compagno al Senato. E posso assicurare che sapeva essere davvero insopportabile come sanno bene quelli che hanno lavorato al suo fianco nel Partito, in Parlamento, in Non c'è Pace Senza Giustizia. Qualche anno fa' si era rotto un femore, non poteva partecipare a un congresso di Radicali Italiani (mi pare a Padova), mi chiamò in ospedale per dettarmi una lettera al congresso, molto bella, che concludeva chiarendo che non era una lettera di commiato ma che sarebbe tornato tra noi magari in carrozzella.

 

Come è avvenuto negli anni successivi. Forse è per questo che ho sottovalutato la sua crisi attuale, preso da altri più futili o ordinari problemi, e non gli sono stato vicino in questi ultimi giorni. Ero sicuro che anche stavolta ce l'avrebbe fatta.

 

Sono vicino al dolore dei suoi cari (come quella di Franco anche la sua è stata spesso casa mia), a Gianna, a Bianca, a Paolo e Duccio. Un addio fraterno, dunque. Ciao Sergio.

 

Gianfranco Spadaccia


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