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20/11/24 ore

Autopsia di un fallimento: le opere pubbliche



di Deep

 

È bastata una norma in finanziaria che prevede la costituzione di una struttura di progettazione pubblica perché i soliti esperti di investimenti pubblici potessero riproporre soluzioni rianimatorie di un settore in profonda crisi, quello dei lavori pubblici delle imprese di costruzione grandi e piccole.

 

L’analisi delle ragioni prima del declino e poi della mancata ripartenza del settore a servizio di quello che intendiamo come il principale volano dello sviluppo economico è quasi sempre la stessa: rimozione degli ostacoli alle procedure di spesa, eliminazione dei tempi di approvazione del CIPE, ricorso all’appalto integrato, migliore definizione dei principi aggiudicatori dell’offerta economicamente più vantaggiosa ed altri dettagli come la modifica delle competenze urbanistiche con contestuale velocizzazione delle possibilità di spesa e di progettazione dei comuni. 

 

Queste analisi portano con sé anche alcune affermazioni spesso apodittiche: non abbiamo più una classe dirigente seria in grado di progettare in qualità, i grandi committenti pubblici e le grandi società di progettazione pubblica non sono quelle di una volta, le stazioni appaltanti più piccole come i comuni non sono più capaci, signora mia, di progettare progetti definitivi, senza parlare di quelli esecutivi.

 

Ed ecco che alle analisi di sistema si accompagna la realtà delle imprese che fuggono dalla tana del mercato domestico per non morire di fame.

 

Nessuno dice come veramente sono andate le cose: nessuno dice che dal 2015 al 2018 in una fase di crescente difficoltà finanziaria, gli investimenti pubblici in infrastrutture hanno rappresentato e rappresentano tutt’oggi una sorta di clausola di salvaguardia alla pari di un qualsiasi incremento iva: promettere di spendere ma non spendere mai per garantirsi liquidità a servizio di consumi a fini più o meno elettoralistici e non di investimenti.

 

Nessuno dice che tra il 1996 ed il 2015 la realizzazione del sistema AV prima e la costruzione dell’autostrada Salerno Reggio Calabria e delle metropolitane di Milano, Brescia, Roma, Napoli e Catania delle opere definite strategiche poi, hanno rappresentato altrettante quote fisse di finanziamenti pubblici immessi nel sistema economico italiano al ritmo di almeno 5 mld di euro all’anno e che dal 2006 fino al 2014 a questi si sono aggiunti circa 1.5 mld all’anno derivanti dalla legge obiettivo.

 

Nessuno dice che alla programmazione delle risorse deve seguire un processo di pianificazione e di attuazione e che tutte queste fasi hanno orizzonti temporali che i tecnici definiscono rolling time: all’interno di un ciclo decennale, la costanza  solida e granitica di procedure autorizzative, di spesa ed attuative vanno articolate in subcicli di cinque e tre anni.

 

Nessuno dice che i comuni, le cui prerogative in tema di controllo territoriale ed in materia urbanistica sono costituzionalmente previste, hanno subito blocchi della spesa negli ultimi 10 anni utili a far quadrare il bilancio complessivo dello stato. 

 

Nessuno dice che un paese come l’Italia, soggetto a spese improvvise, avrebbe invece necessità di fissare annualmente una percentuale anche minima di PIL per sostituire infrastrutture obsolete: pochi maledetti e subito dovrebbe essere la principale caratteristica di un qualunque progetto in modo da essere coerente al motto di una legge di stabilità che ha cambiato i connotati della spesa pubblica, ridotta ad un arco triennale e non più governata da impegni di spesa e limiti di impegno di durata quindicennale.

 

Nessuno dice che i processi di programmazione, di pianificazione e di attuazione delle opere pubbliche, non possono essere oggetto di ripensamento come le spending rewiew o le analisi costi benefici soprattutto quando i progetti in corso registrano già obbligazioni giuridicamente rilevanti o hanno superato tutti gli ostacoli autorizzativi posti lungo il loro percorso come in un video game a difficoltà crescenti.

 

Nessuno dice che alcune imprese di costruzione hanno cambiato pelle in questi dieci anni e che da costruttori o general contractor hanno cercato e qualche volta sono riuscite a diventare concessionarie, trasformando il capitale in rendita mentre i mancati pagamenti di lavori eseguiti hanno o impedito il passaggio definitivo al nuovo ruolo di concessionario o distrutto capacità progettuali ed operative che non hanno resistito alla mancanza di risorse finanziarie per il blocco della spesa ma anche per l’assenza di un sistema bancario specializzato in grado di sostenere quei mancati pagamenti.

 

Nessuno dice che il codice appalti cosi come è va abrogato e che al suo posto andrebbero recepite le direttive 24 e 25 del 2014 così come sono.

 

Nessuno dice che eliminare le funzioni del Cipe comporterebbe solo una clamorosa assenza di pubblica trasparenza nelle politiche economiche e nelle scelte di investimento a queste collegate.

 

Nessuno dice che i tempi delle funzioni di controllo preventivo della corte dei conti dovrebbero essere anticipati rispetto al processo decisionale in capo al CIPE  e che quelle dei controlli dell’Anac vanno rese compatibili con le realtà di impresa e dei progetti e non con il sospetto dell’esistenza di fatti  corruttivi.

 

Del resto in un Paese in cui una nuova classe politica usa tecniche di ostruzionismo o di rallentamento sul tema delle opere pubbliche per trovare spazi finanziari utili solo al finanziamento dei consumi a fini elettoralistici o ad aggregare il dissenso, dirsi la verità non è utile. Molto meglio dissimulare la realtà e candidarsi a gestire strutture governative da qualunque governo vengano. 

 

 

 

 


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