Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

18/11/24 ore

Caso Gambirasio: i ragionevoli dubbi sulle sentenze Bossetti



di Gianni Carbotti e Camillo Maffia

 

Parte I – Primo grado di giudizio

 

Il 1 luglio 2016 Massimo Bossetti è condannato all'ergastolo dalla Corte d'Assise di Bergamo. I punti fondamentali su cui le motivazioni si articolano sono essenzialmente tre: a) il corpo della vittima non è mai stato spostato dal luogo del ritrovamento, ergo l'omicidio è avvenuto necessariamente in quel campo; b) il DNA rinvenuto è quello di Bossetti e questo lo colloca automaticamente sul luogo e al momento dell'azione lesiva che ha causato la morte; c) altri indizi confermano la colpevolezza dell'imputato, dal fatto che non sia stato in grado di ricostruire i suoi spostamenti il giorno della morte di Yara Gambirasio alla compatibilità delle fibre sintetiche rinvenute sugli indumenti del cadavere con quelle del sedile del suo furgone.

 

Tali assunti appaiono molto lontani dalla certezza granitica che si desidererebbe provare quando si leggono le ragioni che conducono un uomo ad essere privato della libertà per tutta la vita: oltre all'impossibilità di verificare quanto l'accusa sostiene in merito al DNA con ulteriori accertamenti e dunque in assenza di una controprova, il fatto che il cadavere non sia stato condotto nel campo in un secondo momento non appare affatto certo, così come gli indizi che sosterrebbero la prova scientifica sembrano una serie di fatti del tutto slegati e di per sé irrilevanti, in cui si potrebbe ravvisare un qualsivoglia significato unicamente qualora la prova regina si confermasse tale, dato che non è concesso appurare con un nuovo esame.

 

L'unica evidenza, in relazione al caso di Yara Gambirasio, è che questa si stava recando al centro sportivo: di lì non è più tornata ed è stata rinvenuta morta alcuni mesi più tardi. La certezza stessa con cui si esclude il fatto che non abbia mai lasciato lo stabile il giorno del delitto lascia perplessi, tanto più che si basa prevalentemente su una testimonianza che la inquadra per l'ultima volta mentre "si stava dirigendo con passo deciso verso la porta che dà sul cortile esterno”. Si può supporre quindi che non sia rientrata nell'edificio con la stessa facilità con cui si può ipotizzare il contrario; il testimone stesso non potrebbe stabilirlo con certezza.

 

Il cellulare non è mai stato ritrovato: chi l'ha uccisa si è preoccupato di farlo sparire, il che fa pensare che avesse contatti con la vittima, a differenza ad esempio di Massimo Bossetti, il quale non l'aveva mai vista né conosciuta. Del resto, la ragazzina non aveva relazioni al di fuori della normale cerchia affettiva tipica dell'età; e le maggiori frequentazioni ruotavano attorno al centro di ginnastica ritmica.

 

Non risultano in alcun modo contatti con soggetti diversi da quelli noti alla famiglia: il che spiegherebbe per quale ragione l'assassino avrebbe smontato il telefono LG PK 108, che fa video e foto, lasciando unicamente batteria e SIM, per nascondere cioè qualcosa che era nella memoria del dispositivo, ma non della scheda: difficilmente però avrebbe avuto ragione di farlo un totale estraneo.

 

È chiaro che si tratta di una vicenda in cui è veramente difficile individuare dati inoppugnabili, e non aiutano i dettagli relativi alla scomparsa, dal fatto che sia stata una mera casualità a determinare che sia andata la bambina al centro e non la sorella, al rinvenimento del cadavere in un campo all'aperto mesi più tardi, nonostante le attente e vaste ricerche. Si sa che il suo telefonino era acceso alle 18.49, il giorno della sua scomparsa, e che alle 19.11 era spento: poi più nulla. Dalle indagini presso il centro, nonostante le dichiarazioni contraddittorie del custode, non emergerebbe nulla di rilevante; si ricorre ai cani molecolari, esperti nel ritrovamento di resti umani, che fiutano una traccia tra la struttura e il cantiere di Mapello.

 

Il corpo sarà ritrovato solo a tre mesi esatti dalla scomparsa, il 26 febbraio 2011, da un aeromodellista che cercava il suo aeroplanino. La Corte, a questo proposito, sottolinea che la ragione per cui il cadavere non è stato trovato prima, e sarebbe dunque stato sempre nel medesimo posto, sia che non era visibile a una distanza maggiore di un metro, oltre a essere circondato di arbusti. Ricordiamo che questo è il primo punto con cui si motiva la condanna: se l'omicidio fosse avvenuto altrove, la tesi andrebbe riformulata, DNA o non DNA.

 

Ma è davvero difficile condividere la sicurezza con cui si assume che non vi sia mai stato alcun trasferimento, al punto di definire “fantasiosa” la tesi opposta e “verosimile” il fatto che per tre mesi nessuno, né esseri umani né i loro cani, si siano accorti che nel campo, all'aperto, esposto alle intemperie, c'era un cadavere che si stava decomponendo, considerando le ampie e capillari ricerche e il fatto che quello stesso territorio è battuto dai cacciatori, coi propri cani, i quali vanno a caccia di prede mentre i loro simili, portati a spasso dai loro proprietari, si svagano correndo liberamente prima di tornare fra le pareti degli appartamenti in cui vivono accanto ai loro padroni.

 

Chiunque può capire come sia evidente il contrario: è fantasioso pensare che nessuno abbia fatto caso a un corpo in putrefazione in una situazione del genere, mentre è verosimile che tale corpo non sia stato sempre lì. Vi sono inoltre dei dettagli ancora più insoliti, come il buono stato di conservazione degli indumenti, nonostante gli agenti atmosferici e l'azione degli animali, e quello vario dei tessuti molli.

 

I giudici stessi riportano come gli organi genitali e l'imene della vittima fossero intatti: ma questa è solo la prima di una serie di caratteristiche che compongono l'unicità di questo delitto se appartenesse, come ritengono i giudici, alla categoria degli omicidi compiuti da sex offenders, i quali hanno una loro fisionomia nota, studiata e precisa.

 

Non vi è alcuna certezza neppure in merito alla causa del decesso: le ferite non erano mortali e ogni ricostruzione è semplicemente un'ipotesi, fondata quanto si vuole, ma nessuno può dire senza timore di dubbio di cosa sia morta Yara Gambirasio. Nonostante si sia dato per scontato, soprattutto sui media, che abbia perso la vita a causa di una combinazione tra le ferite e l'ipotermia, potrebbe benissimo esser avvenuta in un altro modo, dato che l'avanzato stato di decomposizione del cadavere non poteva permettere agli attuali mezzi scientifici una ricostruzione inoppugnabile.

 

Ancora meno sicura è l'ora del decesso, ricavato sulla base di assunti relativi al probabile orario dell'ultimo pasto e i medi tempi della digestione, che come a tutti è noto non sono né regolari né uguali per chiunque; anzi, non esiste niente di più vario nell'organismo umano. Come ha sottolineato la difesa, basandosi solo sul contenuto gastrico e non conoscendo neppure la quantità del cibo ingerito e l'ora dell'assunzione, si può al massimo presumere che la morte sia intervenuta in un arco di tempo che va dalla sera della scomparsa al mattino successivo.

 

Su questo, la Corte scrive che “non si comprende quale rilevanza possa avere che la morte sia avvenuta nelle prime ore del mattino del 27 o nella tarda serata del 26”: eppure, non sapendo dov'è morta, com'è morta e perché è morta, se non sulla base di assunti impossibili da dimostrare in modo inequivocabile, conoscere almeno quand'è morta aiuterebbe a capire come mai, sulla base di un delitto dai contorni così incerti, vi sia tanta fiducia di averne trovato il colpevole. Non potendo determinare i tempi, i luoghi e le dinamiche dell'omicidio, ci si può solo basare su ipotesi: ma quando un uomo è condannato all'ergastolo, darebbe conforto trovare qualche certezza.

 

Al momento in cui è rinvenuto il cadavere non ce n'è ancora nessuna: a circa 100 metri è trovata una salvietta sporca di sangue; da quella e dai guanti di Yara sono estrapolati due profili genetici maschili e uno femminile, che non trovano alcun riscontro; e non ci sono impronte digitali latenti sugli indumenti. Finalmente, il 2 aprile 2011, si arriva a quella che agli occhi dell'uomo comune apparirebbe come una svolta: “su una manica del giubbotto di Yara era isolato un profilo genotipico misto, la cui componente maggioritaria era perfettamente sovrapponibile al profilo dell'istruttrice di ginnastica ritmica” - ma i giudici ritengono che questo non abbia alcuna importanza perché, spiegano, vi era uno stretto rapporto tra la maestra e l'allieva.

 

Trovano quindi più logico intraprendere la nota ricerca di un quinto profilo, maschile, appartenente a quello che sarà denominato “Ignoto 1”, prelevando centinaia di campioni e giungendo a identificarlo con Massimo Bossetti in quanto sarebbe figlio illegittimo di tal Giuseppe Benedetto Guerinoni, deceduto negli anni Novanta. Corrispondeva infatti a quello di Damiano Guerinoni, frequentatore della vicina discoteca “Sabbie mobili”, che però al momento della scomparsa della ragazza si trovava in Perù; l'accusa si è quindi dedicata a ricostruire la discendenza, giungendo alla conclusione che l'autore dell'omicidio discenda dal padre per via illegittima e, selezionando le possibili amanti dell'uomo scomparso nel '99, si giunge a identificare Ester Arzuffi, madre di Bossetti.

 

Di qui partono le indagini sull'operaio di Mapello. Come vedevamo, non c'è prova di contatto tra lui e la vittima; il suo numero di cellulare compare sui tabulati di cella di Brembate, questo sì, ma è proprio lì che vive suo fratello. In altre parole la ragazza va al centro di ginnastica ritmica, si ferma con le insegnanti di ginnastica ritmica a guardare le lezioni di ginnastica ritmica, non torna più dal centro di ginnastica ritmica, non c'è prova al mondo che abbia lasciato il centro di ginnastica ritmica, sul giubbotto c'è il DNA dell'insegnante di ginnastica ritmica, ma si esclude che la morte della vittima abbia sia pur vagamente a che fare col centro di ginnastica ritmica.

 

È piuttosto imputabile a un tale che non vi è prova che la vittima abbia mai visto né conosciuto, selezionato tra le migliaia che usano il telefonino in quella zona, sulla base del fatto che discende da un uomo deceduto il cui profilo genetico è altamente compatibile con il DNA in pessime condizioni trovato sul cadavere in avanzato stato di decomposizione. Quando la difesa chiede di ripetere la prova del DNA, di cui contesta l'utilizzabilità e l'affidabilità dal punto di vista scientifico, la risposta è no.

 

Eppure la corrispondenza è parziale: sappiamo del DNA nucleare, ma non di quello mitocondriale. E certo verrebbe da auspicare che nel momento in cui si dà l'ergastolo a un uomo essenzialmente sulla base del suo DNA, vi sia almeno una corrispondenza schiacciante: qui invece il DNA mitocondriale addirittura manca e vi sono solo ipotesi sul perché manchi. Ma la Corte spiega nelle motivazioni che “avendo a disposizione il DNA nucleare, la ricerca a fini identificativi del DNA mitocondriale è inutile”.

 

I giudici ritengono infatti che la corrispondenza sia schiacciante eccome, anzi, scrivono che “per trovare un altro individuo, oltre a Massimo Giuseppe Bossetti, con le stesse caratteristiche genetiche sarebbero necessari centotrenta milioni di miliardi di altri mondi uguali al nostro, ossia un numero di persone nettamente superiore, non solo alla popolazione mondiale attuale, ma anche a quella mai vissuta dagli albori dell'umanità”: dato chiaro all'accusa, ma non altrettanto alla difesa, che non ha avuto modo di confermarlo.

 

Altri elementi resi noti dai media nel corso del processo sono via via caduti: il famoso video in cui si vede il furgone di Bossetti ripreso dalle telecamere si rivelò un montaggio che le stesse forze dell'ordine ammisero essere destinato alla stampa, e non si sa neppure di chi sia quell'autocarro; l'altrettanto nota testimonianza di Alma Azzolin, in base alla quale l'imputato e la vittima addirittura si sarebbero dati appuntamento nel parcheggio del cimitero, è caduta. Insomma, non vi è nessuna prova che Yara Gambirasio ci sia mai salita, su quel furgone.

 

La compatibilità delle fibre sintetiche coi sedili del mezzo, comune, come scrivono i giudici stessi, a tante altre persone, ovviamente non è una prova, così come non ne forniscono alcuna i tabulati, tanto che la difesa ha fatto notare come, in base agli orari degli agganci, l'imputato avrebbe potuto tranquillamente stare a casa sua mentre la vittima era in palestra, cioè alle 17.45: il fatto che dopo quell'orario il suo telefono non generi traffico non ci dice né che era spento né che era acceso, né che era in casa né che era fuori.

 

La presenza delle particelle di calce rinvenute dagli accertamenti indicherà pure il cantiere, ma non necessariamente l'operaio; del resto, il padre stesso della vittima è geometra di cantiere. Ma la Corte ritiene che il mestiere dell'uomo non abbia niente a che vedere con tali particelle, “perché altrimenti simili particelle sarebbero comparse anche nei campioni prelevati nell'abitazione o sui tamponi cutanei dei familiari”.

 

E sia pure: ma immaginiamo che, Dio non voglia, domani trovino morto un ragazzo, e per una ragione o per un'altra il principale sospettato sia un bidello che la vittima non ha mai visto né conosciuto, che non ha alcun movente e vive da tutt'altra parte. Poniamo che sul cadavere siano rinvenute tracce di gesso: sta bene, questo punta alla colpevolezza del bidello. Ma se il ragazzo è figlio di una maestra, si può in coscienza includere il gesso tra gli elementi principali con cui si dà al bidello l'ergastolo, solo ed esclusivamente sulla base del fatto che gli altri membri della famiglia e la loro casa non presentassero, al momento in cui sono state effettuate le analisi, tracce di gesso?

 

Altri indizi non ce ne sono, se si esclude l'ampia enfasi che le motivazioni pongono sul fatto che l'imputato guardasse video pornografici, come centinaia di migliaia di suoi connazionali, o che questi filmati fossero ricercati nel genere “teen”, che però com'è noto non coincide con il circuito realmente pedo-pornografico: si tratta di contenuti erotici che coinvolgono ragazze giovani, non bambine di età inferiore a quella del consenso, e non sono necessariamente illegali.

 

Peraltro, l'imputato ha un figlio, all'epoca tredicenne, e non è affatto certo che sia stato lui a effettuare tutte le ricerche relative a contenuti pornografici ritrovate sul PC: la sentenza, a questo proposito, mette in estremo rilievo il fatto che solo Bossetti possa aver digitato su Google una chiave di ricerca, nello specifico "ragazzine con vagine rasate".

 

Ma quest'unica digitazione attribuibile con certezza all'imputato non indica affatto che fosse attratto da bambine al di sotto dell'età del consenso: anzi, chi ha tali pulsioni generalmente va alla ricerca di materiale inequivocabilmente pedo-pornografico, finendo quasi inevitabilmente con l'accedere a quelli messi a disposizione da circuiti criminali – tanto più se detti istinti si rivelassero incontenibili al punto di compiere un rapimento e sevizie culminate in un delitto efferato, semplicemente guardando passare per la strada una sconosciuta ragazzina, peraltro particolarmente pudica e la cui vita esclude qualsiasi atteggiamento meno che casto, per di più in un orario trafficato com'è quello che va dalle sei del pomeriggio alle dieci di sera.

 

Emerge al limite che Bossetti apprezza fanciulle che hanno l'abitudine di rasare integralmente la propria vagina, il che è certamente molto più di quanto noi volevamo sapere, ma molto meno di quello che volevano sapere i giudici. Il movente sessuale, com'è evidente, non ha alcun riscontro.

 

Altrettante perplessità generano le conclusioni cui si giunge in merito alle intercettazioni ambientali fra Bossetti e la moglie, tanto più nell'ambito di un provvedimento che priva un cittadino della libertà per sempre sulla base di un esame scientifico che non gli è stato concesso verificare e qualche vago indizio che avrebbe valore solo in funzione dell'esame stesso, al punto che la Corte stessa afferma: “Ciascuno di tali elementi, considerato isolatamente, è suscettibile di letture e spiegazioni diverse ma, ove lo si valuti unitamente agli altri, converge in un'unica direzione, che è quella tracciata dalla prova genetica, di per sé sufficiente, anche in via autonoma, a fondare il giudizio di colpevolezza”.

 

I consulenti lamentano di non aver potuto visionare i dati, che al solo controllo dei tracciati quattro controlli positivi e sei negativi presentavano anomalie e che risultava l'uso di polimeri scaduti, oltre al mancato ritrovamento del DNA mitocondriale.

 

Indipendentemente dalla colpevolezza o meno di Bossetti, il dato preoccupante è che una sentenza simile costituisce un precedente giuridico: se basta questo per togliere la libertà a un uomo fino alla morte, nessun cittadino è al sicuro dal rischio di essere condannato a una pena come questa per un crimine che non ha commesso. Ecco perché, quando si rialza il capo dalla lettura delle 157 pagine di motivazioni della sentenza, ci si accorge che nel frattempo è calata la notte non solo esteriormente, ma anche interiormente. E la prova scientifica non solo non intacca, ma rafforza il dubbio politico, perché è il principio stesso in base al quale sia sufficiente di per sé ad essere preoccupante, tanto più che non è stata concessa una controprova.

 

Ma quand'anche la prova fosse inconfutabile al pari di tutti gli indizi, il punto è che non vi sarebbe comunque la certezza che Massimo Bossetti abbia ucciso Yara Gambirasio. Per quanto atroce sia immaginare simili scenari alternativi, bisogna ammettere che proverebbe solo il contatto col corpo: potrebbe essere stato lui a trasportarlo nel campo, potrebbe aver aiutato il vero assassino a farlo sparire, potrebbe averlo nascosto nel cantiere e in un secondo momento depositato sul terreno, anche la sera seguente; potrebbe perfino, volendo sposare la tesi difficilmente sostenibile che sia un maniaco sessuale, aver rinvenuto la vittima nel campo a decesso già avvenuto, ed aver espresso le sue pulsioni solo dopo.

 

Potrebbe essere stata uccisa nel centro sportivo, dove gli autori del delitto si sarebbero rivolti a lui per far sparire il corpo. C'è il profilo genetico di un altro uomo: costui e la istruttrice di ginnastica potrebbero allo stesso modo, in via del tutto teorica, essere gli autori dell'omicidio e aver nascosto il corpo al cantiere con la complicità di Bossetti, per poi spostarlo; e così via.

 

La Corte sostiene che il DNA è suo, che lui quel giorno poteva essere in zona, che alcune tracce trovate sul corpo della vittima sono compatibili col suo furgone e col suo lavoro, e che gli piacciono i film porno: ma anche a volerlo dare per assodato tutto questo proverebbe che lui è entrato in contatto col corpo, non che l'ha uccisa. Il fatto che sia l'autore del delitto è una semplice deduzione, valida come qualunque altra; e apprendere che ci si può trovare in carcere a vita sulla base di una semplice deduzione non è affatto rassicurante, perché perfino se fosse esatta resta una deduzione, e se s'introduce nel diritto che questo è sufficiente a condannare un uomo a una pena tanto alta, magari s'è trovato l'assassino, ma si è smarrito il diritto.

 

Nelle motivazioni della sentenza si scambia continuamente l'improbabile con l'impossibile e il probabile con il certo, e in virtù di questo equivoco si priva un uomo della libertà a vita. Il modo, infine, in cui ogni dettaglio della tesi accusatoria è pienamente sposato, mentre si respinge ogni ipotesi difensiva, pista alternativa e addirittura la verifica stessa della prova regina richiesta dalla difesa consegna uno scenario che andrebbe considerato nell'ambito del dibattito sull'urgenza di una riforma della giustizia che sancisca, fra l'altro, la separazione delle carriere.

 

Parte II – Secondo grado di giudizio

 

Il primo grado ha lasciato tante domande prive di risposta. Nonostante la sicurezza con cui la giustizia afferma di aver individuato il colpevole, la giornata in cui Yara Gambirasio è morta resta avvolta in un mistero amaro, che ricopre a sua volta come una nebbia un delitto efferato che rivela, come unica certezza, la perversa abiezione che si cela nel cuore dell'uomo. Le stranezze sono tali e tante che è davvero difficile orientarsi.

 

Ad esempio, secondo una testimonianza alle 18.30 dello stesso giorno si era presentato presso il centro sportivo un uomo che in un incontro precedente colei che riferisce il fatto era stata costretta ad allontanare per via di sgradevoli apprezzamenti; lo aveva invitato a rivolgersi alla reception e aveva poi saputo che era andato al bar e aveva infastidito alcuni dei presenti. A carico di quest'uomo, però, non emerge alcun elemento nonostante controlli, intercettazioni e campione salivare. Secondo il Tribunale, l'assassino è Massimo Bossetti: il DNA lo prova.

 

Ma è davvero difficile credere che il movente sia stato di tipo sessuale, anche perché l'imputato stesso non ha mai avuto, né prima né dopo il fatto, alcun atteggiamento accostabile al profilo del maniaco sessuale omicida, se si eccettua l'enfasi posta su qualche video pornografico del genere “teen”, considerando peraltro che, come affermeranno poi gli stessi giudici, “non era rilevata nessuna traccia di navigazione in siti dal contenuto palesemente pedo-pornografico o nel c.d. dark web”.

 

La Corte di primo grado aveva considerato “ragionevole ritenere che l'omicidio fosse maturato in un contesto di avance sessuali, verosimilmente respinte dalla vittima, che aveva scatenato la reazione di violenza e sadismo del prevenuto”: oltre alle varie perplessità suscitate da tale conclusione, tale movente non era stato messo in connessione con la personalità dell'imputato; nella vita di questo maniaco sessuale omicida non s'era mai verificato nulla d'insolito né lui aveva manifestato il benché minimo segno di squilibrio. Ma per l'accusa “l'accertamento del movente non era essenziale in presenza dell'attribuibilità dell'azione”.

 

Così, quando la difesa ricorre in appello, ci sono veramente troppe cose che non tornano: e pare accorgersene anche il Tribunale del riesame di Brescia, il quale rivolge un serio monito. Sottolinea infatti che “l'anomalia denunciata dalla difesa concernente gli esiti delle indagini sul DNA mitocondriale non trova... una soluzione netta, di talché le aporie potranno trovare composizione solo se saranno espletate analisi aggiuntive, in sede di perizia, in dibattimento od in corso di incidente probatorio”.

 

Un'anomalia, quella del DNA mitocondriale, che non aveva trovato alcuna valida spiegazione scientifica. Non era stato accertato neppure luogo, ora della scomparsa e della morte, dinamica del prelevamento e del trasporto. Non solo: Eddy Castillo era stato rinvenuto nello stesso campo 40 giorni prima, ma non vi era stata nessuna comparazione; coincidenza che i legali di Bossetti sottolineano nel ricorso, assieme alle sorprendenti affinità con l'omicidio di Sarbjit Kaur, scomparsa lo stesso giorno della settimana a un mese di distanza, stesse ferite, posizione analoga: il processo era stato “frettolosamente archiviato su richiesta del P.M. dott.ssa Ruggeri come suicidio”.

 

Si potrebbe andare avanti a lungo: c'era stata la creazione di un video ritraente un automezzo, in accordo con la Procura, per esigenze di comunicazione; l'errore commesso dal dott. Giardina, il quale aveva confrontato il DNA mitocondriale contenuto nelle tracce individuate dal RIS con quello di 532 soggetti senza rendersi conto che stava confrontando i profili mitocondriali delle potenziali amanti di Giuseppe Benedetto Guerinoni con quelli di Yara, secondo gli avvocati “evidenziava la fallibilità umana, mettendo in luce la possibilità che anche l'assenza del rinvenimento del DNA mitocondriale di Bossetti fosse imputabile a errori commessi durante le indagini tecniche”.

 

Non era neppure certo che Giuseppe Guerinoni fosse effettivamente il padre di Ignoto 1: vi era un'anomalia attribuibile a un difetto di kit, che poteva avvenire con l'utilizzo di kit scaduti, utilizzati in fase d'indagine come stigmatizzato dalla difesa. Ulteriori anomalie potevano trovare spiegazione, a giudizio dei legali, o in un'aggiunta di materiale o in una sostituzione di provette o in un errore degli inquirenti. Inoltre, “se l'analisi del contenuto gastrico poteva consentire di ritenere che il decesso fosse avvenuto non già nella tarda serata del 26.11, né nelle primissime ore del mattino, ma successivamente, l'aggressione non poteva essere avvenuta prima della tarda serata del 26.11, quando Bossetti era sicuramente a casa".

 

Oltre alla mancata ricostruzione delle dinamiche dell'omicidio e alla debolezza della tesi secondo cui il cadavere sarebbe rimasto sempre nel campo di Chignolo, la corificazione era incompatibile con la presenza del corpo per l'intero periodo sul campo perché si verifica solo in ambienti chiusi. Per di più, risultava corificato un braccio coperto dalla manica del giubbotto. Gli avvocati parlano di "strumentalizzazione della scienza": si definiscono scientifici i dati a sostegno della colpevolezza dell'imputato, e si escludono tutti gli altri. Secondo loro, 12 elementi su 20 del materiale trovato sotto le scarpe presentavano diversità rispetto alla conformazione del suolo di Chignolo: considerato che prima la vittima era stata in palestra, quale terreno poteva aver calpestato?

 

C'era stata confusione perfino tra la calce e il calcio, sempre secondo i difensori di Bossetti, il quale all'epoca dei fatti era reduce da un intervento all'ernia mentre la ragazzina era un'atleta: non si capisce come avrebbe fatto a portarla a spalle per centinaia di metri attraverso l'impervio campo di Chignolo se l'avesse stordita prima, mentre se l'aveva aggredita nel campo perché non fosse fuggita o, se l'avesse raggiunta, non avesse riportato segni di fuga e colluttazione. Non solo non c'era prova di contatto tra vittima e assassino, ma neppure traccia della vittima sul mezzo, nonostante il copioso sanguinamento.

 

Tra le varie perizie richieste dalla difesa, c'è quella sulle ferite per capire se fossero compatibili con un atto compiuto “da mani inesperte quali, a titolo esemplificativo, quelle di minori, prodotte al culmine di un atto di bullismo degenerato. Tale ultima tesi avrebbe peraltro dato una giustificazione alla ricerca e al prestito di libri concernenti il tema del bullismo, da parte della vittima, pochi giorni prima della scomparsa, presso la biblioteca di Brembate (libri: “Piantatela! Chi l'ha detto che il bullismo esiste solo tra i maschi?” di Jacqueline Wilson e “Brutta!” di Constance Briscoe, preso in prestito il 20.11.2010, così come confermato dal teste Guamieri Pietro, bibliotecario, sentito all'udienza del 18.03.2016).

 

Effettivamente, qualche domanda in relazione a un simile scenario viene tuttora da porsela. La ragazza sta facendo delle ricerche sul bullismo: fa pensare che ne sia vittima. Poi si reca alla palestra, dove ha le sue maggiori frequentazioni, e non torna più. I RIS identificano la presenza di DNA dell'istruttrice di ginnastica sul giubbotto e – fondamentale – non solo nel giorno della scomparsa Yara Gambirasio non aveva avuto contatto con l'insegnante, come accertato in dibattimento, ma com'è facile capire durante l'allenamento non indossava certo indumenti pesanti.

 

Al contrario, le giacche delle allieve erano chiuse nello spogliatoio, al quale le insegnanti non avevano accesso. Com'era finito lì quel DNA (l'unico attribuibile in modo certo a una persona ben conosciuta dalla vittima) chiaramente visibile a occhio nudo al punto d'essere stato fotografato? Dalle testimonianze risulta che la sera del delitto la persona cui appartiene il profilo genetico era proprio insieme al custode, fa notare la difesa: lo stesso che aveva dato, di volta in volta, una versione diversa dei fatti. Queste sono le domande che si rincorrono nella mente dei difensori e che non sembravano aver turbato gli inquirenti, sicuri di aver trovato il colpevole.

 

Ma la Corte d'appello pare dello stesso avviso. Nonostante i rilievi mossi anche dal Tribunale del riesame, nega la perizia sul DNA: la ritiene superflua e in ogni caso l'esame sarebbe irripetibile. Il profilo genetico d'Ignoto 1, inoltre, secondo i giudici appartiene senza ombra di dubbio all'autore del crimine e con la stessa certezza è attribuibile a Massimo Bossetti. L'unica spiegazione della traccia di DNA di Ignoto 1 in quella posizione, spiegano, è che l'autore del crimine l'abbia lasciata al momento del ferimento, assumendo che sia sangue il fluido da cui deriva ed escludendo automaticamente gli altri quattro profili genetici rinvenuti sul cadavere.

 

Il DNA mitocondriale in ogni caso è inutile. Non c'è ragione di controllare l'ottimo operato dei consulenti dell'accusa; al contrario, nelle motivazioni non risparmiano critiche a quelli della difesa. In altre parole, ogni indizio converge a sostenere la verità scientifica, che a sua volta però non è suscettibile di verifica né di controprova. Karl Popper avrebbe replicato che, ammettendo che l'esame sia effettivamente irripetibile, la scientificità della prova contro Bossetti non è tale, perché non essendo ripetibile non è falsificabile: e se la prova non è scientifica, l'imputato è stato condannato senza prove.

 

Il fatto che non sia ripetibile è peraltro ampiamente contestato, in particolare da un consulente di parte che afferma gli sia stata impedita l'analisi e che sia stata asserita la presenza di decine e decine di campioni, ovvero che dapprima si sostenesse la possibilità di fornire migliaia di ripetizioni, per poi invece dichiarare che la traccia si era completamente esaurita. In questo caso, sarebbe stato negato ai difensori perfino di verificare la prova regina con una perizia di parte pur essendocene la possibilità: è appena il caso di ricordare che senza quella prova non solo l'imputato non sarebbe stato condannato, ma non sarebbe stato neppure arrestato.

 

Nessuna pista alternativa è presa in considerazione. Ogni accostamento col “suicidio” di Sarbjit Kaur è da respingere, così come tutte le richieste di perizia avanzate dalla difesa. La traccia genetica lasciata dalla istruttrice di ginnastica? Non è significativa. I giudici di secondo grado, come quelli del primo, liquidano ogni interrogativo nel merito. Al tempo stesso, ritengono plausibile che il corpo sia rimasto nel campo per tre mesi, senza che nessuno lo notasse, e provato il fatto che il decesso sia avvenuto presso lo stesso luogo, dato che “la corificazione di alcune parti del corpo del cadavere di Yara non si pone in alcun modo in contrasto con la sua permanenza per tre mesi nello stesso campo di Chignolo”.

 

Si ravvisano perciò diversi passaggi logici difficili da comprendere. Quand'anche il corpo fosse stato sempre nel campo, dov'è la prova che sia stata uccisa lì? E seppure il profilo genetico di Ignoto 1 fosse certamente di Bossetti, su quali basi sarebbe necessariamente quello dell'autore dell'omicidio? Non si conosce neppure la natura del fluido corporeo che ha lasciato la traccia: si ritiene che sia sangue, ma è solo una deduzione. I giudici spiegano inoltre che non si può considerare l'assenza del mitocondriale come un'anomalia, perché normalmente non è usato in ambito forense. (È possibile che sfugga a noi il nesso fra un assunto e l'altro, perché se così non fosse sarebbe come dire: il fatto che questa mela sia di colore viola non si può considerare un'anomalia, perché normalmente non viene servita con lo spumante).

 

Non c'è dubbio alcuno, per i giudici, che Yara sia uscita dalla palestra. Bossetti era in zona, come dimostrano le celle telefoniche: e a nulla valgono le obiezioni della difesa, perché la cella stessa prova, in base all'aggancio, che Bossetti non stava affatto tornando a casa, ma era dall'altro lato, cioè quello della palestra. Eppure, quand'anche lui alle 17.30 non si stesse dirigendo verso casa, non c'è prova al mondo che dopo le 18.49 fosse davanti alla palestra, mentre le testimonianze sono concordi nel dire che alle 19.30, o al massimo entro le 20.00, era già a casa.

 

A questo proposito Bossetti, da intercettazione, dice che si ricorda che gli si era scaricato il telefono quel giorno, perché aveva dovuto suonare il clacson per chiamare una persona che aveva incontrato, non potendola raggiungere tramite cellulare. I giudici sottolineano quindi che proprio quel giorno aveva il telefono scarico e che si ricordava perfettamente quel particolare, ma non cosa avesse fatto nel corso del pomeriggio; e insistono sul fatto che egli rammenti tale dettaglio insignificante, senza essere capace di riferire nulla di tutto il resto.

 

Questo però capita a chiunque di noi: a chi non succede di non riuscire a ricostruire una giornata distante nel tempo, al di fuori di un singolo fatto, di per sé privo d'importanza, rievocato in base a chissà quale collegamento mentale? La Corte mette quindi in dubbio il fatto che l'imputato sia rincasato per cena, nonostante appaia piuttosto logico quello che afferma la moglie di Bossetti, ovvero che se non fosse tornato per cena lei se lo ricorderebbe e dunque esclude che sia arrivato molto dopo le 19.30.

 

Lei ha sempre ribadito che la sera si cenava tutti insieme intorno a quell'ora, e che il marito non era rientrato a un orario insolito: quando si ha l'abitudine, in famiglia, di riunirsi a mangiare, può capitare che un membro tardi di un quarto d'ora o di mezz'ora; sarebbe difficile, passati mesi, confermare o negare che ciò sia accaduto in una sera qualunque. Ma se il capofamiglia ritarda, poniamo, un'ora, per di più col telefono scarico e quindi staccato fin dal pomeriggio, semplicemente ci si preoccupa – e dunque non c'è alcun dubbio che la signora saprebbe perfettamente se il coniuge fosse rientrato con un ritardo degno di nota rispetto al consueto orario del desco.

 

Anzi, è assolutamente ovvio che se fosse tornato ad esempio a mezzanotte, dopo essere stato irraggiungibile per ore e ore, i familiari non avendo sue notizie avrebbero potuto nel frattempo perfino chiamare la polizia, e in ogni caso è impossibile immaginare che non si siano sovvenuti di una serata così angosciosa. Ma la donna ha invariabilmente ribadito il contrario, cioè che se non era tornato alle 19.30 poteva essere tornato alle 20.00, anche quando non sapeva di essere ascoltata nel corso delle conversazioni telefoniche con lo stesso Bossetti.

 

Quindi se questi fosse stato fuori per un tempo compatibile con quello necessario all'omicidio, considerato che qui si assume che il delitto sia stato commesso al campo di Chignolo e che sia avvenuto dopo le 18.50, è assolutamente impossibile che l'abbia consumato in un tempo tale da non allarmare la famiglia, che non lo avrebbe visto rincasare se non molto tardi, a meno di voler credere che abbia tardato giusto una ventina di minuti o al massimo una mezz'oretta, immaginando perciò che abbia rapito la ragazza, l'abbia portata al campo, l'abbia uccisa, abbia nascosto il cadavere e abbia compiuto il tragitto per rincasare in un'ora circa.

 

Perciò è difficile capire come possa la Corte ritenere "irrilevante" l'ora del delitto e come possa considerare compatibili tali tempistiche con quelle dell'omicidio, visto che i tempi sarebbero risicati per un killer professionista. Qui si tratta invece di un uomo che secondo la tesi dei giudici stessi ha ucciso per un movente sessuale, quindi un maniaco omicida che ha perso disordinatamente il controllo delle sue pulsioni e avrebbe fatto tutto questo senza premeditazione, visto che neppure le istruttrici sapevano che la vittima sarebbe andata in palestra, né lo avrebbe immaginato lei stessa quella mattina, avendolo deciso all'ultimo minuto.

 

"Quanto alla obiezione secondo cui Yara difficilmente si sarebbe fatta avvicinare da sconosciuti”, precisa la Corte, “tale dato è, purtroppo, smentito proprio dalla circostanza secondo cui Yara è sparita mentre stava andando a piedi a casa ed è stata trasportata nel campo di Chignolo immediatamente dopo essere stata aggredita e dopo essere stata fatta salire su un mezzo di trasporto con la costrizione o con l'inganno". Eppure non riusciamo a trovare la prova di questa circostanza.

 

Ma fra tutte le contraddizioni che saltano all'occhio nella sentenza di appello, ce n'è una sopra ogni altra che lascia attoniti: i giudici negano l'utilità di una maggiore indagine psicologica sulla personalità dell'imputato per vedere se sia effettivamente compatibile con quella di un maniaco sessuale omicida, respingendo così le richieste della difesa.

 

Al tempo stesso, però, pongono il massimo accento sul suo atteggiamento psicologico, rilevando ad esempio come non sia quello, a loro avviso, di un uomo disperato per la propria fraintesa innocenza e cerchi invece di trarre a proprio vantaggio il clamore mediatico della vicenda, e insistendo ben più che in primo grado sui suoi gusti sessuali e i video pornografici. Per riassumere, si può affermare senza timore d'errore che la Corte insista nel voler accentuare determinati elementi della personalità dell'imputato, al fine di dimostrare il fatto che sia un individuo cinico, lussurioso e avido di denaro.

 

Ora, qui il punto è che quand'anche ciò fosse perfettamente corrispondente al vero, resta il fatto che bisogna provare non che egli abbia una indole genericamente malvagia o viziosa, ma che la sua personalità sia compatibile con quella di un sadico maniaco omicida mosso da pulsioni di tipo sessuale. E le individualità di questo tipo, com'è noto, corrispondono a tutt'altre caratteristiche: che siano o meno consumatori di pornografia, o che abbiano una visione utilitaristica dell'esistenza, è del tutto ininfluente.

 

In genere i soggetti che compiono questi atti sono più facilmente chiusi, introversi, remissivi, non di rado hanno subito abusi a loro volta: e il modo in cui questi istinti latenti emergono imprevedibilmente sorprende spesso anche loro. Se si trattasse di convincere l'uditorio del fatto che Bossetti fosse in realtà un killer per la mafia, allora sì: eccolo, guardate, gli interessano i soldi al punto di voler sfruttare la situazione, non ha senso morale, etc.

 

Ma tutte queste caratteristiche non rispondono minimamente ai tasselli che, una volta uniti, danno l'inquietante figura dell'uomo capace di uccidere con somma efferatezza mosso, in modo del tutto disordinato ed evidentemente patologico, da richiami carnali. Per fare un esempio, dal punto di vista logico è quasi come se noi volessimo a tutti i costi dimostrare che un tale sia un eccellente fantino, e continuassimo a descrivere la sua abilità nell'inerpicarsi sulle montagne, o nella pesca subacquea: avrà pure scalato l'Everest, ma questo non significa che sia bravo ad andare a cavallo.

 

Così le lunghe dissertazioni sulla sessualità e la moralità dell'imputato lasciano alquanto perplessi. In ogni caso, per i giudici è “superflua, ai fini probatori, la ricerca del movente essendo ininfluente dare dimostrazione di una causale che, attesa la sicura attribuibilità ad una persona, è sicuramente esistita ma può essere stata la più varia, essendo diverse per intensità le ragioni di ciascun individuo e potendosi uccidere anche per un motivo banale, futile o da altri ritenuto inconsistente".

 

Dunque è rinvenuto il cadavere di una ragazza di 13 anni, scomparsa tre mesi prima. Vi sono 5 profili genetici, di cui solo uno noto di persona frequentata dalla vittima e quattro ignoti, tre maschili e due femminili. Non si sa di cosa sia morta, dove sia morta, perché sia morta né quando sia morta.

 

Uno dei profili ignoti corrisponde, secondo analisi non ripetibili, a quello di un operaio che lavora in zona. È arrestato e condannato all'ergastolo in due gradi di giudizio; sono ritenute irrilevanti una controperizia della prova del DNA, ogni altra perizia e ipotesi alternativa, l'ora e la causa del decesso, e pure il movente del delitto: l'operaio è l'assassino. Punto.

 

Questo è il caso Bossetti.

 

 


Aggiungi commento