di Gianni Carbotti e Camillo Maffia
“Non era mai successo”, “Queste cose da noi non si sono mai sentite”, “È impossibile che sia stato un rom”. Le frasi che si sono rincorse in questi giorni all'interno della comunità in seguito all'orrore del rogo di Centocelle non cessano di cadere come una pioggia crescente su un piccolo mondo abbattuto e triste, che si avvolge, nel tentativo di ripararsi, nella memoria di una tradizione che sta attraversando un mutamento frutto del veleno della corruzione che permea ormai i gangli della società romana tutta e come tale non può non serrare nella morsa dei suoi artigli, lacerandole con furia maggiore, le realtà più marginali, povere, abbandonate.
Il sistema criminale da cui il racket origina sta infatti snaturando e cambiando la cultura di questo popolo, che non lasciava neppure ipotizzare questo tipo di fenomeni al suo interno e conservava i suoi valori tradizionali. Sono i capi-clan i primi a non volere che la situazione cambi, che i campi si superino, che i rom s'includano nella società.
I “capoccia” costituiscono l’ultimo anello della catena speculativa che mantiene il giogo attorno al collo delle comunità e lucra sulle loro spalle chiedendo il pizzo, sostituendosi di fatto alle istituzioni, ma allo stesso tempo ponendosi come referenti obbligati con cui le cooperative devono parlare per poter lavorare e a loro volta spartirsi i fondi messi a disposizione dalle amministrazioni, le quali hanno nominato proprio i malavitosi di cui sopra loro portavoce ed interfacce politiche con le comunità per almeno vent'anni.
La speranza che la strage avvenuta nel camper di Romano Halilovic non sia stata ad opera di qualcuno che un tempo è stato vicino a lui, con cui ha mangiato, bevuto e magari riso assieme alla famiglia viva e unita, seduta attorno a un tavolo in una cena gradita capitata imprevedibilmente in una sera d'estate, si sta rivelando sempre più un'illusione che gradatamente svanisce mostrando lo sfondo di una faida interna al clan.
Alcuni, all'interno della comunità rom, sono insorti davanti a questa narrazione e ancora adesso gridano all'attentato neofascista; ma noialtri abbiamo bevuto troppo caffè al Partito Radicale per cedere al costume d'incolpare i fascisti delle stragi, tendenza che ciclicamente si ripresenta nel nostro Paese e che puntualmente occulta verità ben peggiori del rassicurante pensiero d'un anacronistico atto di estremismo compiuto dal silenzioso nemico ideologico che vaga nell'ombra delle istituzioni democratiche figlie della Resistenza, come un drago sconfitto dal sole nascente che attende solo di sollevare le sue fauci per poter colpire ancora.
Questa non è una fiaba e le tre sorelline, con ogni probabilità, non sono state uccise da un drago contro il quale l'opinione pubblica possa scagliarsi e vincere una purezza perduta. I fatti puntano altrove, a un clan che fa il bello e il cattivo tempo ormai da troppi anni, a un campo in cui le denunce relative a racket ed estorsioni si sommano senza esiti rilevanti e in cui tuttora i container s'ostinano a prendere fuoco, al punto che il magistrato inquirente ha unificato i fascicoli d'indagine: la mente dietro il rogo di Centocelle sarebbe la stessa alle spalle del successivo incendio in un container de La Barbuta, il “villaggio della solidarietà” da cui Romano, a onor del vero a sua volta connesso all'ambiente che stiamo delineando, aveva dovuto improvvisamente allontanarsi per trovare rifugio in un camper sul tetto d'un centro commerciale che pullula di telecamere, nel posto più visibile e controllato che gli fosse riuscito di trovare, quasi avesse avuto paura di qualcosa o di qualcuno.
Minacce, avvertimenti, vendette e punizioni che si traducono in alloggi incendiati sono fatti che non dovrebbero certo verificarsi in un Paese civile, tanto più che spesso sono stati commessi da gente che abita nelle case e vessa i poveri costretti a vivere nelle baraccopoli; ma se fosse confermato che è stata compiuta dalle stesse mani una strage saremmo di fronte a qualcosa di completamente diverso, a un orrore che esonda dagli argini della pur insopportabile violenza e prepotenza per sconfinare nel dominio sulle vite stesse, sull'incolumità fisica di persone innocenti.
Sarebbe bello che il risultato di tutto questo fosse la rabbia, la volontà di denunciare e di spezzare il giogo; di dire, una volta per tutte, “Io mi ribello, questo è il mio alloggio, non ti pago più”: ma possiamo davvero aspettarci questo da persone che vivono nei ghetti di Stato in condizioni disumane che già sono sotto lo sguardo attonito della comunità internazionale per i rischi che comportano per l'incolumità dei residenti indipendentemente dalle minacce dei capi-clan? Purtroppo è impossibile e l'unico esito è quello che si sta verificando in questi giorni – una crescente paura, e quindi un dominio ancora più forte. Sappiamo per certo che non c'è ancora un processo di emancipazione del tutto indipendente: c'è qualcuno che monitora, perché non si muove foglia che il capo non voglia.
E così capita, nelle foto degli incontri e dei convegni in cui artisti, mediatori e attivisti di etnia rom si siedono al tavolo di istituzioni, come a volte pure accade, disponibili al dialogo, nelle immagini che dovrebbero illuminare di speranza i pensieri di chi ha a cuore, per un motivo o per un altro, le sorti di questo popolo, di vedere facce riconducibili direttamente a qualche clan: volti – sia detto con tutto il dovuto rispetto per l'individualità singola – che ti aspetteresti più di trovare accanto al duca di Clarence che galleggia in una botte di malvasia, piuttosto che nelle sedi istituzionali le quali si trovano ad essere indirettamente sorvegliate nel momento stesso in cui è convocato un incontro.
E questo è inaccettabile da un punto di vista democratico: se un deputato accoglie le istanze dell'attivismo e il boss di turno manda uno sgherro a controllare quel che si dice, sono i cittadini tutti a essere sotto controllo dei clan, non solamente i rom.
Allo stesso modo, se il presidente di una ONG per i diritti umani, com'è accaduto, è minacciato da un soggetto ascrivibile al medesimo ambiente, le critiche eventuali ai progetti di quell'associazione non rendono meno imperativa una solidarietà che va oggi invece rinnovata e ascritta al suo reale contesto, il quale non si limita affatto alla realtà già drammatica del racket interno ai campi, ma sconfina negli interessi che ruotano attorno ad essi; tanto più che quell'esponente della società civile è intimidito per aver ficcato il naso in un progetto miliardario, non si può liquidare la questione come fosse un problema di microcriminalità legato a piccoli clan che chiedono il pizzo sugli alloggi, ma bisogna avere il coraggio di ammettere che si è davanti alla macrocosmica violenza di una corruzione capillare e diffusa, in ragione della quale non è stata messa in discussione unicamente l'incolumità dell'attivista o della comunità vessata, ma quella di tutti.
Senza dimenticare che se da un lato il volume d'affari attorno ai villaggi non va certo unicamente a vantaggio degli estorsori, dall'altro gli scandali riguardanti le dinamiche dietro gli alloggi non hanno coinvolto solo chi chiede il pizzo, ma anche in alcuni casi rappresentati delle istituzioni. Non è un caso se l'unica assessora che ha provato a cambiare le cose è finita sotto scorta nel giro di pochi mesi.
Può la comunità rom, da sola, impedire di essere controllata dai clan? No, non ne ha la forza. Possono allora le forze dell'ordine, mediante le loro indagini, liberare un processo d'emancipazione che da anni attende di essere implementato? No, perché le condizioni politiche rimangono le stesse, e l'arresto di uno, due, fosse anche di dieci criminali non impedirà l'immediato riemergere di un sistema di controllo attorno al quale ruotano tuttora troppi interessi.
Il capo-clan fa comodo, è meglio sia lui a gestire i campi se l'obiettivo non è l'inclusione ma il lucro sfrenato: e questo è tanto ovvio che chiunque può capirlo. Allora l'unico soggetto che oggi può davvero fare giustizia, anziché limitarsi a battersi il petto davanti a una tragedia imprevista e al tempo stesso annunciata, sono le istituzioni. L'elaborazione di una rappresentanza della comunità rom indipendente dalle pressioni dei clan è possibile solo se le istituzioni compiono un atto di coraggio e convocano finalmente, dopo cinque anni d'inaudito ritardo, un Tavolo d'inclusione in cui solo i referenti accreditati e con le carte in regola siedano a dialogare con l'amministrazione-
Al tempo stesso, il Parlamento ha il potere di sostenere questo processo anzitutto calendarizzando, discutendo e approvando il disegno di legge presentato a prima firma dall'on. Giovanna Martelli, volto all'istituzione di una commissione d'inchiesta sulla gestione e manutenzione dei campi nomadi nella Capitale.
Il Comune di Roma dovrebbe comprendere che implementare oggi la Strategia nazionale d'inclusione, dando un ruolo a chi, nei campi nomadi, lavora onestamente e s'impegna in modo sincero per migliorare le condizioni di vita della sua gente, non sarebbe solo un atto che consentirebbe il pur imprescindibile rispetto degli impegni internazionali ma una questione democratica della vitale importanza, perché fin quando bisognerà chiedere il permesso al capo per convocare un presidio o un incontro le istituzioni stesse saranno minate nella loro indipendenza, di fatto, dal potere della criminalità organizzata.
Apprendiamo invece che alle parole d'indignazione è seguito un nuovo sgombero privo dei minimi requisiti di legalità e di valide alternative d'alloggio, unito a interventi delle forze dell'ordine che sembrano danneggiare prevalentemente chi svolge la raccolta dei metalli – dunque sempre i più poveri e i più deboli.
Non è inutile ribadire che abbiamo criticato la bozza del piano nomadi della giunta Raggi che cancella la rappresentanza rom in quanto “non rappresentativa” perché non si può liquidare un problema di tale gravità senza tentare almeno di fare qualcosa, rassegnarsi all'Anti-Stato e rinunciare allo Stato, alla collegialità, alla trasparenza, “perché tanto alla fine comandano loro”, escludendo così la possibilità dell'autodeterminazione lasciando che sia negata da un sistema di corruzione.
Un attivista rom come alcuni fra quelli che conosciamo che è lavoratore indefesso e collabora in modo eccellente e costruttivo con le istituzioni pur vivendo in un campo da cui non riesce a uscire, vuoi per la diffidenza vuoi per ragioni economiche, è una risorsa per la società italiana; e le istituzioni non devono accettare che questo mediatore culturale, che ha completato un corso di studi e si è proposto con fatica trovando la forza di mettersi in gioco, debba chiedere il permesso prima di parlare a un signore che pratica l'estorsione ai danni di un intero villaggio, o che sfrutta la prostituzione minorile, o che si arroga il diritto di regolare i propri conti con modalità criminali.
Se accettano questo, le istituzioni smettono di essere tali. Serve davvero un taglio netto alle ambiguità inaccettabilmente mantenute finora. Perché quand'anche non vi fosse una faida interna all'origine del rogo, quello resta pure lo scenario in cui si è consumato, aggravato dal fatto che l'Europa ha stanziato milioni di euro per superare dei campi nomadi che sono rimasti fino ad ora a vantaggio esclusivo della speculazione e del malaffare; è certo che se non ci fossero ancora i campi nomadi gestiti materialmente dai clan quel camper non si sarebbe mai potuto trovare lì e l'incendio non sarebbe mai avvenuto.
Questo, purtroppo, è innegabile, e chiama in causa responsabilità politiche del tutto indipendenti da quelle penali. E se è così negare la realtà non serve: in un modo o nell'altro, le tre sorelle sono state passate per il fuoco in sacrificio al Moloch della corruzione.....