di Pierfranco Bruni
C’era una volta una donna che si lasciò affascinare dalla danza e dalla morte. “Se qualcuno dichiara di avermi fornito informazioni segrete, il crimine lo ha commesso lui, non io”. La storia dello spionaggio del Novecento trova questa osservazione come un inciso su una pietra che resterà nei secoli. Una osservazione sibillina che soltanto una donna intelligente e che seppe sempre rischiare, non rinunciò a scriverla e a pronunciarla. Siamo nel centenario della uccisione per fucilazione di Mata Hari. (Cfr. il video molto bello di Anna Montella). Ma chi fu Mata Hari?
Lei stessa così si descrisse: “Io sono olandese e quindi neutrale. Posso frequentare tutti i tedeschi che voglio. Dopo tutto sono miei ammiratori”. Viene ricordata come una spia. Fu veramente una spia?
Di lei mi parlò spesso mio nonno paterno e poi mio padre. Resta nella mia vita da epoche. Gigantografie occupano le pareti della mia casa. Una donna inafferrabile e magica. Tra le grandi donne del primo Novecento, da Eleonora Duse a Marta Abba, da Claretta Petacci a Eva Braun, da Josephine Baker, a Greta Garbo, da Luisa Ferida… ad altre che qui non cito, Mata Hari spicca con la sua personalità e la sua sensualità di un Oriente “malesiano”.
Ma chi fu realmente la danzatrice? Fu una danza fatale. Percorse i suoi ultimi passi con la cadenza lenta. Non volle che le si fasciassero gli occhi. Volle vedere i propri fucilatori negli sguardi. Volle osservare il plotone di esecuzione che sparò senza indugio.
Era stata condannata per spionaggio. C’era una volta una danzatrice che portò l’Oriente sulla scena dei teatri della Grande Guerra. Il suo canto, la sua musica, i suoi abiti nella nudità del suo corpo e della fattezza della sua bellezza, portavano l’incanto, il segreto, il sogno. Penetrare per pochi istanti la dimenticanza della tragedia, che invadeva il mondo, significava assentarsi dalla triste realtà.
Era bella. I suoi vestimenti leggeri sembravano il trionfo di Cleopatra. I suoi bracciali, le sue collane, i suoi orecchini nel suono della presenza d’Oriente. La danzatrice, quella che fu definita la spia più enigmatica e più elegante, la cortigiana più amata dalla aristocrazia militare di quegli anni.
Si chiamava Mata Hari, ovvero, in lingua malese, significa “Occhio del Giorno”. Era nata in Olanda a Leeuwarden il 7 agosto del 1876. Il suo vero nome era Margaretha Gertruida Zelle. Ma conosciuta, appunto, come Mata Hari. Dal 1895 al 1900 è sposata infelicemente con un ufficiale di venti anni più grande di lei. Ma è a Parigi che trova la sua grande passione nell’intrecciare la danza e il canto tra i diversi palcoscenici.
Da Parigi a Berlino sino in Italia dove approda a Milano. Si dice che sia stata coinvolta in un complicato e sottile giro di spionaggio che riguardava il Medio Oriente e alcuni Paesi Europei tra i quali la Germania e la Francia durante la fase della Grande Guerra. Lei, imperturbabilmente, sempre negò. Ma venne condannata, e oggi gli olandesi, il suo Paese che le diede i natali, chiedono la riabilitazione perché, sostengono che è stata passata per le armi senza alcuna prova.
Viene fucilata in Francia, a Vincennes il 15 ottobre del 1917. Mentre il plotone sparava, lei gridava di essere innocente. Una donna che seppe vivere amando. Amò fino a morirne. Fino a non temere la morte perché sapeva bene che la vita è un attraversare la morte quotidianamente. Si ama fino a superare la morte nell’esercizio stesso della vita.
Era bella, con negli occhi la sensualità di quell’Oriente che portava la trasparenza del mistero e dell’onirico senso. Non rinunciò mai alle notti e ai giorni della passione. Seppe cogliere, danzando, ogni gesto di una profonda eroticità. Ma l’eros è l’attrazione del vivere. L’eros come scavo tra corpo e anima.
Mata Hari non seppe mai fingere e restò sulla scena anche osservando i fucili sparare. Forse una donna simbolo in un tempo di grandi complicità nelle ambiguità di un Secolo contradditorio. Seppe morire come seppe vivere la vita con la poesia e la grande bellezza.
“La danza è una poesia in cui ogni parola è un movimento”. Questa sua frase resta incisa nel cuore di chi seppe apprezzarla e di chi sa riconoscere la sua grandezza e la sua magia. Una donna stregata dal sogno e dal coraggio. Mai si arrese e mai ebbe paura tanto che prima di essere fucilata, alla notizia della condanna, ebbe a dire: “State sicuri che saprò morire senza paura. Farò quella che si chiama una bella morte!”.
A Mata Hari
“Se a morir sotto l’alba
si teme di finire
ingiusto è vivere
amando senza perdonarsi.
Io nulla ho da affidare al silenzio.
Se troppo ho amato
è perché troppo ho saputo vivere
e di questo alcun pentimento è dovuto.
Mi sfiora il vento d’Oriente
e danzo con i doni di Cleopatra”.
(Pierfranco Bruni).
Mata Hari: un mito. Una donna nel fascino dell’attrazione. Greta Garbo la rappresentò, nel suo film del 1931, in modo sublime. Una danzatrice. Una cortigiana? Una spia?
Seppe vivere con la dignità con la quale si presentò davanti ai suoi carnefici. Aveva soltanto 41 anni. Una donna popolarissima e di grande prestigio tanto che lei ebbe a dire: “Il mio prestigio in Germania è grande. Sono amica perfino del principe ereditario”.
Questo non bastò a farle evitare il plotone di esecuzione e proprio nel momento in cui le viene chiesto se ha qualche cosa da rivelare lei con audacia e rida rispose: “Nessuna, ma anche se ne avessi ormai sarebbe troppo tardi!”.
Qui finisce la sua vita, ma non terminano le polemiche e le leggende o il raccontare la sua vita. Infatti, proprio di recente Paulo Cohelo dedicò a lei il suo ultimo libro, “La spia”, che si conclude con le parole pronunciate nel 1947 dal pubblico ministero che condanno la danzatrice: “In tutta sincerità, le prove erano talmente risibili che non sarebbero servite neppure per condannare un gatto”.
Ma perché Mata Hari venne condannata e fucilata? La storia resta una lettura di politica internazionale. La leggenda si fa mito...