di Zeno Gobetti
Il prossimo 4 dicembre si voterà il referendum sulla riforma del testo della Costituzione. Bisogna ammettere che questa campagna referendaria stia toccando delle punte di demenzialità notevoli da una parte e dall’altra. In particolare mi sembra che si stia caricando l’esito del referendum di significati come minimo eccessivi sia da parte dei favorevoli che dei contrari.
Per quanto riguarda il no, l’enfasi posta sulla deriva autoritaria mi sembra fuori luogo. La critica radicale alla democrazia italiana si concentra sul ruolo spropositato dei partiti al punto da sostenere che il sistema sia più partitocratico che democratico. Non penso si possa vedere in Renzi un dittatore, anche perché oltre alle condizioni gli mancherebbero le capacità per farlo. Penso invece che la riforma possa stabilizzare un nuovo assetto del sistema partitocratico.
Per quanto riguarda il sì, la retorica del cambiamento, del “voltare pagina”, nasce da una logica che personalmente ritengo falsa. I cambiamenti non nascono “dall’alto” e dalle istituzioni che, in genere, registrano cambiamenti già avvenuti nella società. Non penso che la situazione economica possa ripartire con queste riforme e osservo con un po’ di stupore gli avvertimenti che il Governo lancia agli elettori paventando rischi immensi per il Paese se non dovesse passare la riforma.
Di fronte ad un quesito referendario si può votare sinceramente, valutando il testo della riforma, o strategicamente cercando di valutare le possibili conseguenze politiche. Senza dubbio il primo voto è più facile da considerare e probabilmente più coerente con lo spirito del referendum. Detto ciò ognuno è libero di fare le proprie valutazioni ed esprimere il proprio voto sinceramente o strategicamente.
Alcune considerazioni sul contesto e sul voto strategico
Il referendum costituzionale è uno strumento di garanzia messo a disposizione dei cittadini per mettere in discussione una riforma votata dal Parlamento. L’idea che sta alla base di questo strumento è quella di impedire che le istituzioni possano modificare la Costituzione contro il parere dei cittadini. Invece, in questo caso, il referendum è stato utilizzato dallo stesso Governo in chiave plebiscitaria. Questo tipo di uso, consentito dalle regole, quindi legittimo, dovrebbe tuttavia sollevare qualche perplessità da parte di coloro che appartengono ad un partito che si dichiara democratico. Un utilizzo del referendum in questo senso non è esattamente democratico.
Il Presidente Renzi ha annunciato che, se dovesse essere respinta la riforma, lascerebbe l’incarico di Governo aprendo una crisi . Questa decisione, non obbligata da regole istituzionali ne dal contesto politico della maggioranza, ha il sapore più di una minaccia che di una previsione. Perché Renzi dovrebbe dimettersi se venisse respinta la riforma? A questo punto il solo motivo è che lo stesso Renzi ha deciso di personalizzare il risultato del referendum sulla sua gestione di governo. Una decisione poco opportuna quella di spostare le valutazioni sul testo della riforma verso quelle di contesto politico, soprattutto per il Paese.
Da molte parti si continua a evocare lo “spauracchio” dell’emersione dei movimenti populisti che potrebbero salire al potere in caso di vittoria del no approfittando della irresponsabile e sconsiderata scelta del Governo di legare la sua durata all’esito del referendum. Tuttavia, la scadenza naturale della legislatura sarà nel 2018 e dubito profondamente che tali movimenti saranno indeboliti dall’esito del referendum. Se vince il sì il Governo andrà avanti ma Renzi potrebbe anche valutare di andare a votare subito per cercare un effetto di trascinamento a suo favore. Se vincerà il no è probabile che sia necessario un governo di scopo per modificare la legge elettorale e tornare a votare. Fermo restando che la paura è sempre cattiva consigliera, faccio notare che se passerà questa riforma si potrebbe aprire realmente la strada al Governo del M5S.
Passo a fare alcune valutazioni personali sul testo della riforma. Quando si valuta una riforma lo si fa tenendo presente un riferimento ideale che si desidera raggiungere. Lo stesso vale per il piano generale della riforma costituzionale.
Come radicale non posso che valutare sinceramente la riforma con i riferimenti storici della nostra cultura politica in merito alle riforme istituzionali che si riassumono nel trittico Presidenzialismo, federalismo, sistema uninominale. Quali sono gli effetti politici che vogliamo produrre con questi tre elementi?
1) Presidenzialismo: vogliamo la stabilizzazione dell’esecutivo e la sua elezione popolare (diretta o indiretta) in modo da creare un nesso diretto della responsabilità politica del Governo (accountability). Vogliamo separare l’esecutivo dal legislativo in modo che quest’ultimo possa svolgere effettivamente il suo ruolo di controllo.
2) Federalismo: vogliamo disperdere il potere nel territorio in modo da evitare eccessive concentrazioni di potere nel centro e favorire una collocazione delle funzioni e dei poteri in base alle diverse necessità.
3) Uninominale: vogliamo limitare il ruolo di intermediazione dei partiti e movimenti tra l’eletto e l’elettore. Pensiamo che restituire la responsabilità politica personale agli eletti sia un modo per rafforzare la democrazia rappresentativa.
Sono questi i riferimenti che utilizzo da radicale per giudicare la riforma cercando di capire se la riforma si avvicini o meno a questi effetti. Non mi sembra di vedere alcun elemento migliorativo nella riforma proposta tenendo presente questi punti di riferimento.
Il governo non viene né stabilizzato né rafforzato sensibilmente dalla riforma. Si potevano valutare meccanismi di sfiducia costruttiva o distruttiva, molto più semplici da applicare al testo vigente. Si poteva inserire il potere di nomina e revoca dei Ministri e Sottosegretari per uniformare l’attività del Governo. Invece nulla di tutto questo, si è proceduto a stabilizzare l’esecutivo attraverso una legge elettorale proporzionale con premi di maggioranza. Una scelta che rafforza i partiti e non le istituzioni.
Il regionalismo, che è stato un fallimento completo, non viene superato dalla riforma del titolo V ma viene ridotto a vantaggio di un riaccentramento di funzioni verso lo Stato centrale con l’inserimento di una clausola di supremazia dello Stato che mette fine a qualsiasi ragionamento di autonomia. Niente di più lontano dal federalismo, ovviamente.
Infine, la legge elettorale associata alla riforma ha numerosi aspetti critici rispetto ad un sistema uninominale. Tale legge, che cambia in base alle convenienze politiche del potente di turno, è e resterà comunque un proporzionale con un margine di scelta degli elettori ristretto e con un premio di maggioranza molto forte. Non mi sembra che questo si avvicini a ciò che vogliamo.
Sulla base di questi presupposti da radicale mi sembra più utile esprimere sinceramente un voto contrario, senza nessun entusiasmo. Penso che la riforma abbia qualche aspetto positivo ma dispersi un disegno generale profondamente confuso. Come ha detto in numerose occasioni il prof. Gianfranco Pasquino, temo più la deriva confusionaria che quella autoritaria.