Immaginatevi una platea, un luogo dove la gente sta seduta, che guarda passivamente uno spettacolo che è la propria vita: è quello che ho visto ieri da un generoso conoscente che ha messo a disposizione la propria abitazione per far incontrare a noi tutti Giovanni De Andre, uno dei progettisti del primo computer da tavolo al mondo, prodotto dalla Olivetti nel 1966, un successo in un campo d’avanguardia che resterà una delle pagine più belle nella nostra storia.
Sapevo già da alcuni giorni che era arrivato ed ero curioso di vederlo, anche se non mi aspettavo granché viste le condizioni in cui si trova oggi il campo informatico qui in Italia, dove, come tutti sappiamo, importiamo tutto, anche da paesi come la Corea, che ha avuto lo sviluppo industriale solo in questi ultimi decenni, cioè molto dopo che l’Olivetti mettesse in commercio il primo computer mainframe e successivamente quello da tavolo, Olivetti Programma 101, di cui per l’appunto si parlava l’altra sera.
Era un periodo, quello degli anni ’60, in cui l’Italia vantava numerosi primati industriali: avevamo il primato dell’industria chimica e farmaceutica, la Moplen produceva i primi laminati plastici in polimeri che davano una elasticità prima d’allora impensabile, irrompevamo nel mercato mondiale del petrolio con l’ENI scrollandoci dalle spalle il dominio dei produttori stranieri che altro non erano che quelli che ci avevano vinto in una disastrosissima guerra, i campionati mondiali di automobilismo erano contesi tra Lancia, Alfa Romeo e la esordiente Ferrari, mentre sulle due ruote dominava indisturbata le gare in tutto il mondo l’Agusta. Roma era diventata la città dei paparazzi perché era frequentata dagli artisti più prestigiosi al mondo… e qui potrei continuare a lungo, ma penso che sono cose note a tutti.
Trovarsi di fronte a Giovanni De Andre, per me che non l’avevo mai visto, voleva dire avere tutto quello che succedeva in quegli anni davanti agli occhi, come assistere ad un film. Sensazione che pare non sia stata solo la mia perché i presenti lo hanno tempestato di domande su quello che era avvenuto in quel laboratorio che partorì la P101, il primo "mini computer", come mi disse che li chiamavano.
Molti erano i presenti e tutti interessati a come era fatta questa macchina che portò l’Italia all’avanguardia sui computer, anche se bisogna dire che fu un successo quasi esclusivamente negli USA, unico paesi a propagandarlo massicciamente e anche ad avere una platea di utenti con la giusta competenza.
Infatti i PC si potevano usare solo se eri capace di dargli istruzioni: in pratica dovevi conoscere il linguaggio macchina, l’unico di quei tempi in cui la programmazione era agli esordi e non esistevano i sistemi operativi, per cui si dovrà aspettare Bill Gates, e nemmeno gli applicativi, quelli che per intenderci servono a scrivere le lettere ecc.
In pratica erano "unfrendly",termine preciso per definire il grado di accessibilità di un computer. Furono gli statunitensi a dargli le caratteristiche che lo resero sempre più facile da usare e quindi popolare al punto che noi tutti oggi ci troviamo a fare comunemente molte delle operazioni che prima erano complicatissime con gli smartphone di cui Steve Jobs è stato uno dei precursori, dopo i palmari.
Nell’incontro ho notato che l’attenzione dimostrata da tutti era di carattere nostalgico mentre, cosa che mi ha colpito, niente era rivolto al presente e nemmeno al futuro. Infatti la mia domanda su quali sviluppi prevedeva Giovanni De Andre nell’informatica, fu poco considerata e addirittura contestata dai presenti, come se fosse una domanda da non fare.
L’accaduto mi dette una chiara lettura della situazione dell’informatica e dei partecipanti all’incontro, che altro non erano che gente "seduta",come li ho raffigurati nell’introduzione di questo scritto, con una facile metafora che adesso spiegherò meglio.
Premetto che non ho nessuna avversione con chi stava nella sala e nemmeno con chi ha organizzato l’incontro o con il principale invitato Giovanni De Andre, a cui vanno le mie più sentiti apprezzamenti. Parlo in generale di un Paese che, a differenza di tutto il mondo, da quegli anni ’60 non guarda più al futuro, che quando vuole pensare al proprio valore torce il collo per guardarsi alle spalle perché quello che ha davanti a sé gli ripugna.
Questa è la sensazione, piuttosto amara, che ho avuto in quella serata, che, anche se aveva un carattere di svago amichevole, dava il polso della situazione che attraversiamo.
Ad esempio, lui stesso diceva che fece due colloqui alla Olivetti quando ancora non era laureato e che poco dopo lo assunsero mentre i suoi figli, da laureati, prima di riuscirci hanno dovuto tribolare. Per non parlare, aggiungo io, di tutti quelli che stanno all’estero o sono disoccupati, condizione che adesso si registra come normalità.
Roma non è stata solo la città degli impiegati, ma anche quella che dopo gli anni ’60, a metà degli anni ’80 conobbe il periodo d’oro della "Tiburtina Valley" (nome che ricordava la più famosa Silicon Valley) e visse un periodo di successo che vide l’informatica italiana ai vertici internazionali: tutto finito poi nel nulla o quasi.
La risposta a tali fenomeni non è di carattere tecnologico. Se se gli ingeneri presenti all’incontro manifestavano impotenza non era un caso: molto è dovuto alla politica sbagliata che questo paese fa e che purtroppo paghiamo pesantemente in tutto. Il campo dell’high tech è proprio uno di quelli in cui attualmente siamo più penalizzati.
A questo punto non mi resta altro che concludere con una frase estrapolata dal recente libro di Giuseppe Rippa (con Luigi O. Rintallo), Alle frontiere della libertà. Come reagire alla 'società delle conseguenze'? (Rubbettino Editore, 2015) i cui contenuti sono di immediata condivisione:
"Per 'società delle conseguenze' intendiamo quella società dove le contraddizioni sono rimaste ingessate e mai risolte, che contiene in sé la crisi del welfare e il blocco di tutte le possibili sperimentazioni di una evoluzione in chiave autenticamente liberale e democratica" (p.20)
(Mi limito solo ad aggiungere un ahimè, perché è un disastro nazionale che ci travolge tutti).