Ormai è chiaro che la Germania ha deciso di non cogliere l'occasione che il destino le offriva per la terza volta in appena un secolo: mettersi a capo dell'Europa e trasformarla in una vera potenza continentale. Un complesso politico, economico e militare come forse non si è mai visto nella storia, in grado non solo di competere con le altre grandi forme imperiali su tutti i piani, ma anche di superarle senza eccessive difficoltà.
Le altre due volte aveva provato con le armi, e non era andata troppo bene. Questa volta si trattava solo di essere un minimo lungimiranti, non chiudersi nella visione ristretta di un calcolo economicistico miope, ma tentare un investimento certo imponente ma dai ritorni incommensurabili. Ma si sarebbe dovuto ragionare con il metro dei secoli e non con quello di domani mattina.
Si doveva stendere il braccio a risollevare le province più deboli, aiutare invece di sfruttare e deprimere, incoraggiare invece di minacciare. E uno dopo l'altro i paesi europei le si sarebbero avvicinati come a una amica, prima ancora che a una potenza politica. La Germania forse sarebbe stata un po' più povera per qualche anno, ma sarebbe stata amata e rispettata. E quando la nuova macchina si fosse messa in moto, allora Berlino sarebbe stata la capitale di questa nuova entità, non per una imposizione ma per il tacito consenso di tutti, perché sarebbe stato ovvio e giusto.
Ma la Germania non ha voluto farlo, e forse questo significa solo che non lo meritava. Si è rivelata ancora una volta la "pallida madre" di Brecht, una grande e terribile assenza nel cuore del continente. Peccato. Peccato per lei ma anche per noi. Perché non c'è un'altra Europa possibile. Perché un'Europa di banchieri e bottegai non la vuole nessuno. Perché la "generazione Erasmus" è troppo debole e inconcludente, e anche se tra dieci, venti anni sarà in grado di dire la sua, non ci sarà più alcuna tribuna da cui parlare.
Peccato, aveva maledettamente ragione, nel 1914, il ministro degli esteri inglese Edward Grey: "Le luci si sono spente, e non le rivedremo più."
Giulio Leoni