di Giuliano Ferrara
(da Il Foglio)
La giurisdizione internazionale dipende dal conflitto e dal suo esito politico militare e diplomatico, non viceversa. Per evitare pose deliranti, la Corte e il Tribunale dell’Aia dovrebbero studiare il precedente della guerra dei Balcani.
Dopo le richieste di arresto della Corte penale internazionale contro i capi di una democrazia (Israele) e i capi di una banda terroristica (Hamas) messi sullo stesso piano, ora L’Aia ci riprova con la pretesa di dare ordini a un esercito in guerra, Tsahal, su cosa può fare e cosa non può fare, quando e dove.
Per certi aspetti questa idea della giurisdizione internazionale che guida la guerra e la pace, la sconfitta e la vittoria, la giustizia armata e disarmata, sembra un delirio. In realtà un rapporto tra la legge e la guerra esiste, ma sta nella stretta dipendenza della legge, della giurisdizione internazionale, dalla guerra e dal suo esito politico militare e diplomatico, non viceversa. Esiste un precedente che la Corte e il Tribunale dell’Aia dovrebbero studiare, non è così difficile, per evitare pose appunto deliranti.
Per anni, mentre Sarajevo era assediata e colpita in modo disumano nel grande assedio serbo, mentre avvenivano le grandi tragedie a tutti note con le esecuzioni sommarie di interi insediamenti umani sotto la sorveglianza impotente delle truppe Onu, organizzazioni umanitarie meno proclivi all’astrattezza lanciarono la parola d’ordine di una polizia internazionale per risolvere la questione, e perfino il Papa Giovanni Paolo II si inoltrò nel percorso difficile e controverso del diritto di ingerenza umanitaria degli stati.
Erano discussioni benevole ma non mettevano capo a nulla finché non arrivò un vero impegno, innanzitutto militare, per inverare quel diritto di ingerenza umanitaria. La questione fu infatti risolta solo quando con l’impegno della Nato e delle potenze internazionali, dopo anni di fallimenti della diplomazia europea, si iniziò una lunga e vittoriosa campagna di bombardamenti che da agosto a settembre del 1995 stroncò le velleità espansionistiche di Milosevic e indusse nel novembre di quell’anno al tavolo negoziale e a una sistemazione delle cose che dura bene o male da quattro decenni, con la fine delle ostilità.
La guerra lunga e sanguinosissima dei Balcani fu coronata poi dal processo a Milosevic e a Karadzic, ma dopo, la “sentenza” di pace o di equilibrio possibile e di fine delle ostilità, quelle sì genocidarie, fu quella degli accordi di Dayton firmati in territorio americano dai belligeranti, compresi coloro che poi saranno sottoposti a processo per le stragi etniche, di cui tra un anno e poco più ricorrerà il quarantesimo anniversario.
Non sono le indagini, le richieste di arresto, le ordinanze giurisdizionali agli stati maggiori e il narcisismo delle corti e degli avvocati a decidere dell’esito di una guerra. Anzi, quando la legge internazionale pretende per sé la guida delle operazioni, e finge di poter separare il bene dal male con mezzi giuridici, le cose si complicano e incarogniscono.
Putin, l’autocrate russo che ha dato il via a una guerra di offesa e imperialista, e a oltre due anni di stragi di civili e di massacro senza alcuna giustificazione politica sensata, non si è nemmeno accorto di essere stato oggetto di un mandato d’arresto della Corte penale dell’Aia.
Se una prospettiva di pace si affacciasse per l’Ucraina e il conflitto in cui, incolpevole, è stata trascinata, questa dipenderebbe dalle forniture di armi, dallo sblocco dei finanziamenti e dalla fine delle regole militari penalizzanti sulla possibilità di usare l’arsenale occidentale in tutto l’estensione reale del fronte di guerra, oltre che dall’ambiguità strategica delle linee rosse da non valicare con la minaccia di un intervento difensivo diretto degli alleati di Zelensky nell’autodifesa ucraina.
Lo stesso per Tsahal: la sconfitta di Hamas e la liberazione degli ostaggi sopravvissuti all’orrendo calvario può portare alla tregua del cessate il fuoco e poi a una sistemazione politica del problema di Gaza. E’ la guerra che decide della pace, non la legge.
(da Il Foglio)