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18/11/24 ore

Riprende la Corsa al Partito Verde?



di Rosa Filippini (da l’Astrolabio*)

 

Cosa c’è dietro alla corsa che periodicamente riprende nella politica italiana verso un partito Verde che dovrebbe replicare i successi dei partiti fratelli europei? Ma, soprattutto, cosa c’è davanti? Al di là di un’immagine che si ritiene possa essere vincente, ci sono scelte controverse che non possono più essere evitate. Scelte che possono rappresentare la rinascita del Paese o la sua definitiva decadenza.

 

 

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L’iniziativa di Renzi, che ha determinato l’avvento del governo Draghi con una maggioranza inedita, ha anche terremotato il mondo dei partiti politici, particolarmente a sinistra. Il motivo per cui affrontiamo questo argomento su l’Astrolabio è che tutti coloro che riemergono da questo cataclisma sventolano la stessa bandiera: quella dell’ecologia e dello sviluppo sostenibile.

 

In particolare: Beppe Grillo tenta di arginare l’esplosione del Movimento 5S ridefinendolo come autentico partito ecologista italiano; viene annunciata la ricostituzione dei Verdi alla Camera dei Deputati; Il sindaco di Milano Beppe Sala aderisce direttamente ai Verdi Europei senza intermediari; in cima alle aspettative aperte dall’elezione del nuovo segretario del PD Enrico Letta c’è la realizzazione dell’auspicio fatto da Walter Veltroni nel 2007: che il PD diventi il più grande partito ambientalista d’Europa.

 

Il riferimento evocato - e a cui tutti pensano da mesi - è ai verdi tedeschi e francesi che continuano a conquistare voti alle elezioni, che rifiutano la politica del No a tutto e che appaiono “meno estremisti” e più pragmatici, attenti e aperti alle scelte dell’industria per la transizione.

 

Questa corsa a rappresentare gli interessi dell’ambiente dovrebbe emozionare chi, come noi degli Amici della Terra, ha contribuito ad affermare l’ecologia fra i temi rilevanti della politica da oltre 40 anni. A me lo chiedono in tanti, e siccome questa emozione non la sento, né vedo somiglianze con verdi europei di successo, credo di dover spiegare perché.

 

Cominciamo da ciò che meno rileva a proposito delle notizie citate e che, però, occorre disvelare per interpretare realisticamente i “segnali di ambientalismo”.

 

L’ambientalismo di Grillo o, meglio, l’immagine superficiale e un po’ cialtrona di ambientalismo che consiste nel dire sempre di no e nell’accusare gli altri di inquinamento senza assumere alcuna responsabilità, ha sempre rappresentato un pilastro dell’antipolitica su cui è fondato il consenso elettorale al M5S. Nel momento in cui il Movimento è in grandissima crisi e subisce defezioni, rivendicare il cambio di nome e l’ampliamento di competenze del Ministero dell’ambiente come un proprio epocale successo è l’ultima carta che Grillo sta giocando per tentare di mantenere insieme gli attivisti del Movimento che hanno bisogno di una qualche motivazione per digerire l’appoggio a Draghi e a Cingolani, figure assai poco conformi ai sentimenti grillini. L’obiettivo è quello di entrare a far parte del gruppo verde al Parlamento europeo che, fino ad ora, ha visto con sospetto il M5S a causa dei trascorsi antieuropeisti, sovranisti e delle politiche antiimmigrati del primo governo Conte.

 

Rossella Muroni, deputata di LEU ed ex presidente di Legambiente, ha divorziato consensualmente dal gruppo di LEU e si è collocata nel gruppo misto della Camera con l’obiettivo di formare un gruppo parlamentare collegato ai Verdi di Angelo Bonelli, depositari del simbolo del Sole che ride ma privi di eletti nelle istituzioni da 13 anni.  Con l’accordo, i Verdi acquisiranno una rappresentanza parlamentare (a Muroni si sono aggiunti l’ex ministro grillino Fioramonti e il deputato di più Europa Fusacchia) e Muroni entra nei Verdi da una posizione di forza. Insieme si confermano come la rappresentanza italiana del partito Verde Europeo scongiurando l’ingresso dei grillini e si garantiscono una presentazione alle elezioni politiche senza dover raccogliere le firme in ogni collegio.

 

Mai simbolo fu più ambito a prescindere dalle sue fortune elettorali. E pensare - mi si consenta una piccola chiosa personale - che il Sole che ride, simbolo antinucleare internazionale, era in origine nella disponibilità degli Amici della Terra - Italia che ne erano i distributori autorizzati per l’Italia e che lo misero a disposizione delle prime liste verdi alle amministrative in Italia, fin dal 1985, senza accordi e senza contropartite. Ma erano altri tempi.

 

Sulla scelta a sorpresa del sindaco di Milano di aderire ai verdi europei, il quotidiano Domani ha persino fatto realizzare un sondaggio sulle prossime elezioni dal quale risulta che i cittadini milanesi esprimono al 57% una generica preferenza per l’attuale sindaco (solo il 13% ne sarebbe fortemente convinto) mentre sono certi al 78,6 che il prossimo sindaco debba essere un rappresentante della società civile e non un politico di professione. Forse per questo, circa un terzo dei milanesi ritiene che la scelta di Sala sia solo una mossa per rinnovare la propria immagine.

 

Su Letta e sul PD, il discorso si fa più complicato. Prima ancora della sua investitura, il nuovo segretario è stato oggetto di una forte tentativo di condizionamento, tale da occupare - fra l’altro - l’intera prima pagina del quotidiano Domani, da parte di ex deputati e storici ambientalisti di Legambiente come Realacci e Della Seta che hanno sempre considerato il PD, non tanto come proprio riferimento - che sarebbe legittimo e anche opportuno - ma come terreno su cui esercitare in modo esclusivo la propria influenza sui temi ambientali. Infatti, la recriminazione esplicita rispetto alle segreterie Bersani e Renzi è proprio quella di aver escluso le proprie candidature dalle elezioni del 2013 e del 2018. Ma non è l’unica. La posizione tenuta dal PD sul referendum trivelle del 2016 (invitavano a votare NO o ad astenersi) è ancora interpretata come pietra dello scandalo, come prova provata di un partito “antiambientalista”. Di qui la richiesta pressante di una svolta netta nelle posizioni da tenere.

 

Che la politica dell’ambiente stia diventando troppo importante per appaltarla chiavi in mano è certamente chiaro a Letta e non deve stupire o essere scambiato per una dimenticanza il fatto che, nel suo discorso di investitura, pur collocando le politiche per l’ambiente in posizione preminente come da protocollo, abbia scelto prudentemente di non esporsi su questioni controverse.

 

Ma poiché sono proprio le questioni ambientali le più controverse del momento e, grazie all’Europa, anche quelle che valgono i maggiori investimenti e che motivano le più importanti scelte strategiche, questa prudenza non potrà durare a lungo.

 

Naturalmente, questa osservazione vale per tutti, a cominciare dal Governo e dal Ministro per la transizione ecologica Cingolani che, non a caso, è oggetto di studio accurato in ogni sua uscita pubblica e particolarmente nella sua prima audizione pubblica alla Camera. E, nonostante il Governo debba poter disporre di un certo margine di manovra vista la maggioranza variegata che lo sostiene e debba parlare prevalentemente attraverso atti formali, in omaggio allo stile inaugurato con Draghi, ormai i tempi stringono e molte scadenze istituzionali impongono pronunciamenti chiari.

 

Le scelte, particolarmente quelle relative agli investimenti, saranno discusse in Parlamento e tutti i partiti dovranno pronunciarsi con chiarezza uscendo da quel limbo un po’ affettato che ha connotato l’ambiente in questi anni nell’immaginario collettivo e che, pur suscitando sentimenti unanimi e positivi, ne ha determinato l’irrilevanza sostanziale.

 

Questa volta però non basterà tagliare i nastri e molte contraddizioni dovranno essere sciolte. Ed è probabilmente il Pd, il partito che sarà costretto ad affrontare le maggiori contraddizioni, sia internamente che in termini di alleanze.

 

Proviamo ad elencarne alcune.

 

Possiamo compiacerci del fatto che l’Italia sia all’avanguardia in Europa nel settore del riciclo e delle pratiche di economia circolare ma è difficile nascondere l’enorme divario fra regioni che emerge appena si considerino i dati disaggregati e non le medie nazionali. Dunque, ha ragione Bonaccini che guida una regione che ha raggiunto e superato gli obiettivi posti dall’Europa sui rifiuti anche grazie a una gestione integrata e a un numero sufficiente di termovalorizzatori o ha ragione Zingaretti a negare la necessità di un termovalorizzatore nel Lazio al servizio dell’area metropolitana di Roma in cronica emergenza e perennemente dipendente da un costosissimo export di rifiuti urbani?

 

Più in generale, si deve continuare ad assecondare un irragionevole ideologia ZeroWaste che provoca, in più di mezza Italia, un abnorme conferimento in discarica, in violazione delle direttive e della legge e – quel che più conta - contro ogni evidenza che emerge dai dati sugli impatti ambientali dei diversi sistemi?

 

Non si tratta di domande retoriche: l’approccio ideologico non solo condanna le città del centro e del sud ad un deplorevole degrado, a condizioni di emergenza cronica e a tariffe altissime per famiglie e imprese ma condiziona i comportamenti della pubblica amministrazione a tutti i livelli. In questi anni di governo grillino dell’ambiente, un falso rigore solo formale e burocratico ha ritardato inutilmente ogni decreto End of waste lasciando le imprese nell’incertezza e vanificando i loro sforzi di innovazione.

 

A proposito del sistema di governo, si deve attribuire un ruolo crescente e crescenti risorse al SNPA, sistema pubblico di controllo e monitoraggio ambientali indipendente e a rete, attraverso le agenzie regionali per l’ambiente e l’ISPRA o si devono confondere ruoli e competenze con nuovi servizi epidemiologico-climatici come vorrebbero, senza passare per alcun dibattito pubblico, i nostalgici della dipendenza dal Servizio Sanitario?

 

Sui trasporti, per trovare l’apparente accordo di tutti, ci si può limitare a parlare di potenziamento del trasporto pubblico. Ma un partito di governo ha il dovere di esprimersi con chiarezza sull’alta velocità, unico disegno strategico capace di determinare le quote di trasporto futuro in tutto il paese. Non so come la pensino i Verdi europei, ma sono certa che le reticenze dei Verdi italiani sui corridoi europei, le strizzate d’occhio a chi ancora organizza le aggressioni ai cantieri TAV, gli studi farlocchi di costi e benefici che non prevedono i possibili volumi di traffico futuro, l’immobilismo e la mancanza di iniziativa non sono espressione di un ambientalismo capace di governare. E non si tratta di essere moderati o estremisti. Si tratta di avere o no una visione del futuro del paese nel contesto europeo.

 

Le obiezioni agli obiettivi troppo sfidanti di mobilità elettrica dei capitani dell’industria automobilistica come Toyota e Peugeot, ora Stellantis, non possono essere liquidate come riflesso conservatore delle multinazionali. L’allarme sugli incrementi di costo che comporta il motore elettrico nel breve periodo e sul fatto che il mercato mondiale dell’auto ha bisogno di tempi più lunghi di quelli dettati dal Green Deal per recepire grossi volumi di veicoli 100% elettrici riguarda fatti reali che penalizzeranno (forse) l’industria ma che incideranno certamente sulle condizioni economiche delle persone (nonché sulle condizioni ambientali dei paesi poveri, dove vengono estratte le materie prime necessarie a produrre le batterie). Forse si tratta di evoluzioni inevitabili, ma è opportuno che i consumatori ne siano consapevoli, che non si facciano fughe in avanti, che sia assicurata la facoltà di scegliere fra opzioni con pari emissioni.

 

È ancora tollerabile che, in un paese avanzato come il nostro, le perdite degli acquedotti siano ancora su una media del 35%? E che, a fronte di questo dato, la preoccupazione del Parlamento sia quella di ripristinare la gestione del ciclo dell’acqua sotto un improbabile monopolio pubblico, ovvero la forma storicamente responsabile del degrado?

 

Ma è sull’energia che si porranno le scelte principali, non più evitabili. E, su questo, hanno ragione Della Seta e Realacci: il referendum sulle trivelle del 2016, voluto dai coordinamenti NoTriv con l’appoggio decisivo di ben 9 consigli regionali, benché costituisca un riferimento datato – e un po’ patetico - ha rappresentato un vero spartiacque nell’ambientalismo italiano. Da una parte, i massimalisti che teorizzano la dismissione immediata di ogni fonte fossile tacendo sulla effettiva possibilità tecnologica ed economica di perseguire un simile disegno e, dall’altra, chi ha cercato di promuovere una strategia realistica fondata innanzitutto sull’efficienza energetica e sulle eccellenze industriali del paese.

 

Il referendum è stato rifiutato dagli elettori - non dimentichiamolo – ma, nonostante questo, i governi si sono comportati come se i promotori lo avessero vinto e, attraverso una insensata moratoria che ancora non si risolve, hanno provveduto a deprimere ulteriormente un intero comparto produttivo che sarà comunque indispensabile alla transizione energetica. Ora, Realacci e Della Seta rivendicano ancora le posizioni massimaliste e vorrebbero addirittura che il PD facesse mea culpa rispetto a quella parte del partito che salutò positivamente la bocciatura del referendum.

 

Per non perderci nel politichese e per rimanere sulle posizioni attuali: è praticabile la dismissione forzata, in tempi brevi, delle residue centrali a carbone italiane senza nemmeno consentire la loro sostituzione con una corrispondente potenza installata a gas come vorrebbe l’ambientalismo massimalista?

 

Certamente no, secondo Terna e persino secondo L’Enel di Starace, quella che enfatizza le strategie 100% rinnovabili.  D’altra parte, è di tutta evidenza che anche se si avverassero gli auspici di WWF, Legambiente e Greenpeace di quadruplicare le installazioni di eolico e fotovoltaico previste dal Pniec, qualcuno dovrà ben garantire la stabilità della rete contro i rischi di blackout e, comunque, rispondere alla domanda di energia anche quando piove o quando non tira vento?

  

E come si comportano i paesi dove i verdi crescono alle elezioni, dove esercitano grande influenza o dove hanno ruoli di governo, quelli per capirci a cui fanno riferimento i tentativi italiani di politica verde? La Francia non ha nessuna intenzione di abbandonare il nucleare che – è vero - non produce emissioni climalteranti ma che non risponde esattamente alle aspettative dei verdi, i quali tuttavia non alzano barricate per questo.

 

Stessa cosa vale per il Regno Unito che, oltre a mantenere il nucleare senza contestazioni ambientaliste, ha anche aperto una nuova miniera di carbone metallurgico. La Germania abbandonerà sì il carbone, ma nel 2040. La Norvegia ha il maggior numero di auto elettriche circolanti e intende vietare la vendita dei motori a combustione interna dal 2025 anche grazie ai proventi del petrolio che estrae dal mare del Nord. Nel frattempo, rilascia licenze per prospezioni di giacimenti di petrolio nella zona artica.

  

Come si vede, il realismo verde è declinato in modi diversi, talvolta contraddittori, com’è anche giusto visti i diversi punti di vista fra chi governa e chi no e nelle diverse società. E nemmeno il massimalismo di molti ambientalisti italiani sarebbe strano se non avesse così tanta presa sui partiti, particolarmente quelli di sinistra.

 

Ad esempio: possibile che nessun partito abbia voluto valutare i risultati dell’investimento di 220 miliardi di incentivi per raggiungere gli obiettivi di rinnovabili elettriche stabiliti per l’Italia al 2020: nemmeno il 6% di consumi energetici nazionali coperti dai nuovi impianti rinnovabili (eolici, fotovoltaici, e da biomasse) senza, peraltro, consentire la dismissione degli impianti termoelettrici e, anzi, dovendo prevedere il costo del loro mantenimento in stand by sempre a carico delle bollette degli utenti?  Se gli elettori sapessero che così tante risorse – in gran parte già spese  – contribuiscono alle riduzioni di emissioni globali di gas climalteranti per lo 0,03 %, siamo certi che non preferirebbero, d’ora in poi, investire in altre misure o in ricerca?

 

È ragionevole un grande investimento italiano nella strategia dell’idrogeno puntando esclusivamente sull’idrogeno “green”, da fonti rinnovabili, ed escludendo quindi a priori i possibili apporti delle iniziative oil &gas? L’Eni, ovviamente, dice di no. Ma dicono di no anche i sindacalisti della Filctem Cgil che, protestando per l’esclusione dal Piano di Ripresa dei progetti di Ccs Eni a Ravenna, a gennaio, da parte del governo Conte, la definivano senza mezzi termini una scelta autolesionista. Anche in questo caso si è verificato uno scontro netto con i Verdi, con Greenpeace, con la Muroni che avevano applaudito alle scelte del governo rossoverde. I partiti della sinistra che vorranno assumere una posizione seria dovranno andare in fondo a questa contrapposizione e valutare ragioni e velleità sulla base dei dati e non delle suggestioni.

 

Lo sforzo di alcune associazioni italiane di costruire una cattiva immagine intorno all’uso del gas, anche se nessuno pensa davvero di poterne fare a meno, è tale che finora nessuno (a parte Amici della Terra e EDF) si è preoccupato di sollevare il problema delle emissioni fuggitive che pure hanno un effetto rilevante sul clima globale. Considerare con attenzione la funzionalità di tutte le fasi di approvvigionamento e distribuzione per il loro miglioramento porterebbe anche a valutare con maggior realismo il ruolo indispensabile del gas e delle sue infrastrutture per la transizione energetica.

 

Stessa considerazione vale per l’alimentazione a gas del trasporto delle merci, dalle navi all’autotrasporto, che potrebbe portare a considerevoli riduzioni di emissioni climalteranti, oltre che di emissioni nocive, ma che stenta a decollare per una sorta di fastidio ideologico a considerare l’uso di questa risorsa.

 

Nemmeno è comprensibile il disinteresse in cui è stato abbandonato il meccanismo dei certificati bianchi per l’efficienza energetica che negli anni ha dato dimostrazione di grande efficacia nella riduzione delle emissioni dall’industria e dai servizi a un costo sensibilmente inferiore a qualsiasi altro e con ricadute importanti di innovazione nei processi produttivi. Se davvero ci sta a cuore il clima, perché lasciar fallire un sistema che ha dato così grandi risultati?

 

Infine, presso le istituzioni, nelle sedi dei partiti, sui giornali non trovano alcuno spazio le preoccupazioni per il paesaggio, per la biodiversità, per l’occupazione di suolo che comporterebbe l’implementazione dell’attuale Piano energia e clima e – peggio ancora – quello con le correzioni auspicate dai politici “verdi” e dagli ambientalisti che li supportano. La prospettiva di occupare tutti i crinali appenninici con pale eoliche e di stravolgere il paesaggio rurale con immense distese di specchi fotovoltaici davvero non allarma la classe dirigente del Paese?

 

E se l’articolo 9 della Costituzione – quello che tutela il paesaggio - viene così tranquillamente ignorato e disatteso anche dagli eredi dei partiti costituenti, possono essere altrettanto ignorati i danni che saranno inferti, a seguito di una simile occupazione dei territori più intatti, alla risorsa economica del turismo che il presidente Draghi ha citato fra i settori più promettenti per l’Italia? È possibile che nemmeno il ministro dei beni culturali Franceschini abbia nulla da rispondere all’attacco concentrico per zittire le sovraintendenze attraverso una “semplificazione” delle autorizzazioni, invocata dai nostri “verdi” esclusivamente per questi impianti e non per ogni altra iniziativa industriale?

 

(*da l’Astrolabio newsletter degli Amici della Terra)

 

 


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