Angiolo Bandinelli (Il Foglio - 2003)
Di Mario Pannunzio non si hanno biografie (il meglio è nella antologia di suoi scritti curata da Cesare de Michelis, 1993), abbondano invece le agiografie. Anche in negativo, come finiscono per essere quelle costruite sui soliti stereotipi: il grande pigro dall’intelligenza sorniona che si muove in felpata lentezza, che non ha bisogno di arrivare perché si trova ad essere già, sempre, sul punto giusto, lì dove le cose accadono; o lo snob intellettuale, direttore del giornale più elegante d’Italia nella sua veste tardolonganesiana; o il frequentatore di caffè nel fulgore notturno di una Via Veneto in piena Dolce Vita, attorniato dagli amici fedeli, la conventicola paga dei riti elitari con i quali si difende da una Italia abbandonata sprezzantemente alle volgarità del boom. Una leggenda a due facce, positiva per gli uni e negativa per altri, ma sempre gelosa di dubbi e approfondimenti; in definitiva, un ostacolo alla comprensione del personaggio, già di per sé difficile, altero e scostante (ma probabilmente con un fondo di timidezze e di pudori mai vinti, c’è chi è pronto a testimoniarne).
Viene il sospetto che nessuno lo abbia ben conosciuto. Basta pochissimo, ad esempio, a sfatare il mito di un Pannunzio che scrive poco, per indolenza. Falso, Pannunzio ha scritto quanto si conviene ad un giornalista, diciamo. E, quando non scriveva, dettava o suggeriva: centinaia di “Taccuini” de “Il Mondo”, vergati da penne diverse e conosciute, hanno un solo ispiratore, lui. Ma, soprattutto, Pannunzio ha riempito - da scrittore, anzi da grafomane, quasi da ossesso - centinaia e centinaia di pagine di quaderni, taccuini, rubriche da computisteria (cm. 28x23), inedite ma di eccezionale interesse. Ce le restituisce finalmente il suo archivio, acquisito dalla Camera dei Deputati e il cui indice è in corso di stampa, munito di prefazioni che il Presidente Casini, con sorniona intuizione, ha affidato ad Eugenio Scalfari e a Marco Pannella.
I due lo presenteranno mercoledì 12 marzo (Camera dei deputati, Sala della Lupa, ore 11,30): un confronto piccante tra il primo, invitato ad evocare il grande giornalista, e l’altro, intestardito a scavare il meno esplorato, e cancellato, percorso di un Pannunzio grande figura politica, grande organizzatore di politica, dell’unica politica davvero laica e liberale, forse, di quel poco più che decennio, 1949-1960.
Abbiamo avuto modo di scorrere i fogli ingialliti e fragili, e la sorpresa è stata grande. Ci è parso di intravedere, dietro alla figura solare, dal volto liscio e lievemente paffuto, elegante e sobrio nei doppiopetto grigi, un altro Pannunzio, chiuso e introverso, appassionatamente proteso a inseguire un suo obiettivo sfuggente e lontano ma mai, alla fine, raggiunto…
Facciamo emergere, dai faldoni, il noto saggio su Tocqueville, l’unica sua opera “compiuta”: vi è presente in dodici versioni, sette autografe, quattro dattiloscritte, una in bozza di stampa, parte complete e parte ancora frammentarie. Il saggio fu pubblicato nel 1945 sul primo numero di una rivista, dal goethiano titolo “Poesia e Verità”, diretta da Panfilo Gentile. Ma pare fosse già uscito su un altro periodico, l’oggi introvabile “XX Secolo”, uno o due anni prima. Nell’archivio c’è anche un quaderno fitto di citazioni e spunti, dalle opere di Tocqueville o da scritti critici sul pensatore francese. La esatta datazione di questo materiale consentirebbe di mettere a fuoco gli inizi dell’interesse di Pannunzio per un autore allora, nel clima fascista, piuttosto inusitato e sospetto, e la storia del liberalismo italiano acquisterebbe un capitolo nuovo.
A tutta prima, il titolo del saggio, “Le passioni di Tocqueville”, sembra enigmatico. Si capisce, certo, che esso intende scavare dentro la passione, la tormentata, assoluta passione del grande scrittore per la politica, e per quanto ad essa si connette. Ma scorretelo con attenzione, e lentamente scoprirete che, attraverso lo schermo del personaggio tolto in esame, in verità Pannunzio ci conduce labirinticamente dentro un “manifesto” di intenzioni, l’indice di marcia di una “biografia” culturale e politica che è - o meglio sarà - la sua.
Nell’uomo Tocqueville, scrive, “orgoglio, ambizione, amore della libertà sono le passioni dominanti ed energiche”; di esse si nutre, su di esse modella i comportamenti. Tocqueville “sta, è vero, a una certa distanza, e guarda con occhi cupi; ma nonostante guarda, e non sa distrarre la mente, e sempre si affatica intorno agli stessi temi” seppur nascondendosi (attenzione!) dietro “le maniere altere e sprezzanti, i silenzi, la riservatezza, l’eloquenza priva di fuoco, lo snobismo”. Non è, per come ce lo ricordano le testimonianze, l’autoritratto di Pannunzio? E di chi ci parla, quando ricorda come l’autore de “La Démocratie en Amérique” partecipò alla vita politica “con contenuta passione, con orgogliosa riluttanza”, o quando segnala come costui si renda conto che “gli uomini si avviano irresistibilmente verso la democrazia e nello stesso tempo verso l’eguaglianza delle condizioni. Occorre che la democrazia non uccida la libertà…”? Eccezionale.
Forse è in queste note la spiegazione, la radice del rovesciamento nelle vocazioni pannunziane, tra la fine degli anni ’30 e i primi ’40, dalla letteratura e dal cinema alla politica. Grazie a questa meditazione su l’”amore della libertà” il suo percorso si precisa: esploderà nella notte del 24 luglio 1943 quando, mentre si trova al caffè Aragno, si diffonde per Roma la notizia della caduta di Mussolini. Pannunzio corre, assieme ad Arrigo Benedetti, alla sede del “Messaggero” e lì, febbrilmente, batte a macchina l’editoriale del giorno dopo, una invocazione alla libertà e alla lotta. Subito, poi, la direzione di “Risorgimento Liberale” clandestino, l’organizzazione di partigiani liberali partigiani, l’arresto, la detenzione a Regina Coeli, la liberazione grazie ad uno stratagemma che lo salva dalle Fosse Ardeatine…
Le passioni di Tocqueville, le “passioni, insomma, ch’egli nasconde per pudore”, e il suo ritratto: “Ascoltava le idee, anzi le guardava”. Bellissimo. Ma è un autoritratto. Ed è autoritratto il cammeo che troviamo in un abbozzo poi scartato: “Il tono distaccato, marmoreo, non è che mascheramento. E’ il bisogno forse di darsi una apparenza di fermezza e di solenne sostenutezza che lo spinge ad assumere quel tono innaturale alla sua indole infiammata e dubbiosa”. Infine: Tocqueville era “di quegli scrittori che analizzano perdutamente il loro animo”. Pannunzio era della stessa pasta. Abbiamo parlato di “grafomane” e di “ossessioni”; che altro dire di fronte a questi taccuini in cui, con una scrittura monotona e quasi immobile negli anni, in un ordine maniacale e con una logica inspiegabile, viene copiando pagine e pagine di autori, di classici di ogni tempo, oppure compila nomenclature le più varie e bizzarre, o cronologie di personaggi lontani e inconsueti?
C’è di tutto, dall’amatissimo Manzoni a Dickens, da Tolstoi a Dostojewskj e Stendhal, ma anche Giscard d’Estaing e Vilfredo Pareto, Machiavelli o l’abate Galiani, Hamilton e Bernardo Davanzati (l’elenco sarebbe lunghissimo) con i testi che si susseguono senza un ordine che non sia quello, presumibilmente temporale, della lettura. Sono brani di dialogo, descrizioni, osservazioni, “ritratti”, “aforismi”, una sorta di infinito zibaldone di “situazioni” non solo letterarie ritenute, in qualche modo, esistenzialmente significative.
Un secondo apporto non meno “ossessivo” è costituito dalla copiatura, in lunghe filze ordinatissime, di termini, nomi, espressioni della più disparata provenienza, ogni serie in un quadernone con il suo titolo, “Vocabolario”, “Lessico”, “Azione. Frasi d’azione”, “Appunti e schemi”, “Vocabolario del ‘500” (sostantivi, parole tratte da straordinari, poco noti autori italiani di quel secolo). Altri quaderni contengono “indici” per testi giuridici, economici, tecnici, da scrivere chissà quando: “Economia politica”, “Scienza delle finanze”, “Industria e commercio” , altri ancora ci offrono elenchi di papi, di re, delle famiglie nobiliari o aristocratiche della Roma rinascimentale, di avvenimenti storici relativi alla Francia, all’Inghilterra, ecc., con le date in bell’ordine cronologico.
Un repertorio la cui decifrazione e collocazione appare problematica, non solo nel panorama interiore di questo Pannunzio “notturno”. Sembra di trovarsi nell’archivio di un carcere d’altri tempi abitato da un irriducibile Conte di Montecristo, di una istituzione psichiatrica degna del primo Freud. Ma forse basterebbe rifarsi a certe manie di un Flaubert, per dire, o alle schede e scaffali di un laboratorio surrealista se non dada. Non vi è dubbio: la gran parte di questo lavoro dovette essere propedeutico alla volontà esacerbata di essere, di diventare finalmente “scrittore”, che lo occupò nella apparentemente dissipata giovinezza.
Il romanzo non nacque mai, verso la metà degli anni ’30 Pannunzio provò a tradurlo in cinema. Ma arrivò quel terribile 25 luglio. Nacque lì il politico, il direttore de “Il Mondo”. Quello che crediamo di conoscere, e che forse invece è solo una maschera.