di Antonello Anzani
Il 12 maggio è stato un anniversario funesto che pochi ricordano, o forse tanti ma con poco clamore: la morte di un’attivista, di una militante nella lotta per la conquista di diritti umani, Giorgiana Masi di anni diciannove. Oltre agli ideali, condividevamo l’età - poco più lei, poco meno io - e così mi è venuta voglia di scriverle in occasione dell’anniversario della sua prematura scomparsa, per dirle le cose che avrei voluto dire allora e per raccontarle del nostro presente, che era quel futuro che le è stato rubato. Una giovane vita che sognava un mondo migliore, non ha fatto del male a nessuno. Uccisa un giovedì di maggio… “crepare di maggio ci vuole tanto, troppo coraggio“.
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Cara Giorgiana,
sarai di certo sorpresa di questa mia lettera con quel giusto tocco di antico e di confidenziale. Del resto non so quanto sai di nuovi linguaggi, di email, di social che hanno contratto e impoverito la nostra capacità espressiva. Quel giorno non c’ero, per quegli scherzi che gioca il destino (per chi ci crede). Non ero lì in quello scorcio di Roma dove si voleva celebrare l’Italia dei diritti, in quegli anni che, faticosamente, hanno visto le prime conquiste di civiltà. Non ci siamo mai incontrati, non ci siamo conosciuti, non abbiamo mai parlato, ma avremmo potuto.
Una storia che ci accomuna dice che su quel ponte, davanti l’assassino potevo esserci io. Ci ho pensato molto, all’epoca ne rimasi impressionato. Oggi lo porto come un fardello, un buco nel cuore. Scoprii allora che lo Stato che avrebbe dovuto garantirci nella nostra vita, nella nostra ricerca di modelli di vita migliori, tutelare le nostre democratiche istanze, non ci avrebbe combattuto nelle idee, non ci avrebbe opposto una diversa visione della vita. No, lo strumento per fermarci sarebbero state le pallottole. Ciò che seguì quel giorno disegnò un inquietante progetto di sopraffazione. Quel giorno dovevano esserci 10, 100, 1000 Giorgiana, secondo una massima maoista (qui il paradosso): punirne uno per educarne cento. E noi da rieducare eravamo proprio tanti.
Non ho ricordi chiarissimi, il tempo sbiadisce e confonde, l’età non aiuta. Ho rivisto dopo tanti anni la tua foto. No, non quella del poliziotto su un ginocchio che spara e tu che cadi a terra… ho visto il tuo volto, bello, giovane, sereno, il tuo sguardo limpido che salta fuori da un pessimo bianco e nero dell’epoca che impastava le cose sino a renderle irriconoscibili, tetre, spettrali. Mi sono chiesto se è una tattica appresa: perché i poliziotti, quando uccidono innocenti, sono sempre su un ginocchio solo?
Le cose qui sono cambiate e anche molto, per certi versi, ma non saprei dirti quanto migliorate. La strada che porta alla conquisiti di diritti che ci appaiono ovvi, naturali, è ancora lunga e difficile, piena di trappole e pericoli. Come sempre a farne le spese sono gli animi puri, le donne in prima fila. Lo so, non è un granché come primato. Ma in quella tua foto, nel tuo sguardo, ho visto quella forza pura delle combattenti curde, delle ragazze che sfidano il potere degli ayatollah tagliandosi i capelli. “Mahsa” Jîna Amini, una ragazza come te, come tante che aveva solo voglia di vivere, uccisa.
Quel giorno la tua morte inceppò quella macchina, provocò, forse un rigurgito di dignità e di paura in chi avrebbe dovuto attuarlo, in chi avrebbe dovuto sparare. Di tanti uno solo sparò. Perché a te? Non lo sapremo mai… come, forse, mai sapremo chi lo decise. Una cosa certa è che mandanti ed esecutori hanno fatto carriera, perché a servire il potere si vince sempre, o quasi. Lo chiamarono “fuoco amico” cercando di posizionare l’assassino tra di noi. Ad orrore cercarono di aggiungere orrore, in un tragico disegno che avrebbe dovuto impedire ogni cambiamento, ogni evoluzione.
Oggi, come altri, ti penso, e mi chiedo cosa penseresti di quello che sta accadendo mentre ci muoviamo a stento fra rigurgiti razzisti, nostalgie squadriste ed un governo che, nel tentativo di accreditarsi di darsi un volto nuovo nuovo, si agita mostrando il suo animo nero. Guardo i ragazzi accampati fuori le università, ancora a rivendicare un diritto, quello allo studio, alla vita decorosa delle famiglie di poter dare prospettive diverse ai propri figli. Siamo ancora ai privilegi dei ricchi che hanno tutto e i poveri che non hanno neanche se stessi.
“I poveri” sono una categoria che si è ingrandita: un tempo si era poveri quando non si aveva di che vivere, ora siamo ai “poveri che lavorano” e chissà cosa ne pensa quella “vecchia piccola borghesia” che ha sempre retto il gioco dei potenti per essere liberi di elemosinare i propri diritti elargiti come piaceri. La mia speranza è che, fra quei ragazzi - che come tutti i ragazzi sono bellissimi - non ci sia un’altrƏ te destinatƏ al martirio. L’ho fatto, ho usato la schwa, una lettera senza genere che fa incazzare i “benpensanti” (te li ricordi?), sempre loro. Chissà che effetto ti faremmo tutti noi, così vecchi, spesso amareggiati, ma non disillusi (per esserlo, dovremmo esserci prima illusi).
Il 1977, l’anno Horribilis della nostra generazione. Dopo, fu tutto un infrangersi di sogni con il rumore devastante che fanno le finestre quando sono colpite dai sassi. Tutte le finestre furono così chiuse e la luce si fece oscurità. Tu non lo sai, ma l’ordine giunto lo sintetizzò bene, qualche mese dopo, Claudio Lolli: “Disoccupate le strade dai sogni” ed i nostri sogni furono spazzati via. Quel proiettile raggiunse te e spezzò tutta la nostra generazione. Ti voglio bene amica mia, sorella, compagna di lotta.