Pare che i nodi siano giunti al pettine: a Roma gli spazi pubblici si trovano in crisi, e alcuni verranno chiusi. I titoli dei giornali sono espliciti: “Ancora chiusure dopo il teatro Valle, Eliseo e Globe, Pelanda Short Theatre, Romaeuropa e Nuova Consonanza”. Tra tutti quello che ha lasciato dietro di sé più polemiche è la Pelanda, che, dopo un costosissimo restauro di qualche decennio fa, si trova a dover chiudere i battenti.
La riqualificazione della Pelanda, il padiglione dell’ex Mattatoio di Roma dedicato alla lavorazione dei suini, è stato un ambizioso progetto di archeologia industriale che doveva investire tutta questa caratteristica area al Testaccio, che da struttura per la macellazione doveva diventare uno tra i più spettacolari spazi espositivi di Roma e del mondo. Una mastodontica struttura di 25.000 mq. che, da quando è stata dismessa, si trova al centro di tante attenzioni politiche.
Soprattutto a partire dal progetto di riqualificazione del 2000 circa, l’ex Mattatoio tenta di risorgere ma incontra sempre grandi difficoltà nonostante i cospicui finanziamenti ricevuti. “Figlio” di una concezione del riuso che ha condizionato il pensiero architettonico dagli anni ’70 in poi, si trova a lottare contro il tempo, che di innovazioni tecnologiche ne ha avute tantissime, senza considerare che si ritrova fuori uso rispetto agli adeguamenti energetici necessari. Il tema della classe energetica pone una domanda d’obbligo: è mai possibile che queste amministrazioni, e i loro tecnici incaricati di tali realizzazioni, si scoprano di colpo così sprovveduti?
La verità è che gli operatori culturali preposti inventano spazi espositivi e producono tante iniziative culturali pro domo sua. In pratica si spendono tanti soldi pubblici per mantenere una cerchia di gente che fagocita finanziamenti a dispetto dei cittadini, che sarebbero l’utenza che falsamente dicono di servire.
Strutture pubbliche che promuovono una serie di artisti di loro conoscenza, ma ignoti alla gran parte del pubblico appassionato d’arte: una strana sorta d’effimero che pervade le mostre e gli stessi spazi espositivi che le ospitano, una situazione che alla lunga stanca, e infatti il richiamo delle mostre è sempre più fiacco.
Non tutte le mostre, invero, come abbiamo già visto recentemente nell’articolo su Van Gogh, sono deserte, anzi noti la fila per strada: un fenomeno che non ha mai riguardato la Pelanda per la quale sono riusciti a fare una petizione contro la chiusura di ben 900 firme. Quindi vuol dire che ha un pubblico di almeno 10000 persone che, scremate, visto che non tutti i visitatori possono considerarsi statisticamente amatori della Pelanda, arrivano al numero che è stato dato dei firmatari.
Diecimila persone alla Pelanda però non si sono mai state, forse in un anno! È un seguito di pubblico che a Roma non esiste, tranne forse ai musei Vaticani o alla galleria Borghese. Se poi il tutto si unisce all’ultima dichiarazione di Achille Bonito Oliva che fa del sistema dell’arte il propulsore della cultura a scapito dell’artista e del suo prodotto artistico siamo allo smascheramento totale di tale sistema clientelare o come dicono gli insider “sistema dell’arte”...
E se tutto questo non vi bastasse, sappiate che la saga continua: sono state raccolte oltre 400 firme per bloccare la demolizione delle le caserme davanti al MAXXI perché si chiede che quella ex- struttura militare, prevalentemente capannoni, venga utilizzata per esposizioni; la stessa minestra del Mattatoio, riscaldata e servita non più al Testaccio ma al Flaminio.
Non sposo le intenzioni dei demolitori ma nemmeno sopporto la teoria di “conservare tutto”. Questi cittadini vogliono che davanti il MAXXI, in quelle che erano le caserme, si svolgano attività culturali, quelle che non si sono riuscite a fare negli spazi pubblici che per via dei tanti insuccessi sono stati chiusi, e per farlo desiderano che le caserme con qualche maquillage al prezzo esoso dell’ennesimo finanziamento pubblico rimangano come erano, sfruttando leggi che tutelano l’archeologia industriale.
Immaginatevi degli umili quanto mai anonimi capannoni, di quelli che si fanno per pura necessità funzionale con niente di estetico, eletti a essere architettura industriale, e pertanto da preservare a scopo culturale, passando così dal modello di architettura razionalista, prevalente nel quartiere, a quella irrazionalista, stile architettonico inventato alla bisogna dai “tengo famiglia”.
Un’arbitraria valorizzazione dell’obsoleto e del non architettonico, realizzata per poi garantire agli amici degli amici qualche posto nel CDA che verrà a costituirsi per la gestione delle solite attività culturali fallimentari.
Il che è un po’ quello che si vede dappertutto in altre iniziative simili, sulle spalle del cittadino che sovvenziona il tutto, pagando prima le tasse e poi i biglietti d’ingresso. Ammesso e non concesso che voglia mai entrarci.