di Adriana Dragoni
Prepariamoci a pensare che il mondo sia un altro. Tutto, o quasi tutto, diverso da questo dove crediamo di stare. Cominciamo a pensare che le parole raccontino una storia e che la storia vada per conto suo. È tutta cambiata: la sua logica si è capovolta. E accettiamo per buono quello che ci offre. Così applaudiamo alla celebrazione della donazione allo Stato italiano dell'importante collezione d'arte contemporanea di Lia Rumma, da collocare nella Casina dei Principi nel Real Bosco di Capodimonte.
C'è una cerimonia affollata, la gente tutta sudata, nell'ampio Salone da Ballo della Reggia-Museo, dove, in rappresentanza dello Stato, ci sarebbe stato il Ministro Dario Franceschini e il Segretario Generale Salvatore Nastasi, ma lo Stato, ovvero i suoi rappresentanti, non c'era, perché il Governo si era spappolato; nel Salone da ballo purtroppo non si ballava, la collezione che pensavamo di vedere non si vedeva, e nemmeno c'era il luogo dove sarebbe stata collocata, cioè “il Palazzo dei Principi” che era chiuso “in ristrutturazione” e, nonostante il nome, i principi non c'erano, anzi non esistono più.
L'arte è un bene d'élite, la collezione, invece, era dell'Arte Povera. Eppure le opere costavano un occhio e gli artisti si erano fatti pagare bene. Ma c'era la donatrice Lia Rumma, il ricevente padrone di casa, cioè il direttore del Museo e del Real Bosco di Capodimonte Sylvain Bellenger, c'era Massimo Osanna, direttore generale del musei, che inopinatamente in questo contesto di avveniristica arte contemporanea diceva che “il passato vive ancora, anzi tutta l'arte si fonda sul passato”, e c'era Onofrio Cutaia, anche lui direttore generale, ma di che?, della creatività contemporanea, anche la creatività non è un'attività libera e spontanea, lo sapevate?, ma bisogna che sia inserita nella burocrazia statale.
C'era anche colui che ha il compito di difendere Napoli e la sua identità, cioè Gaetano Manfredi, il Sindaco, che parla della città e dice che è e deve essere contaminata, ripetendo più volte “contaminazione”: evidentemente gli piace la parola e il fatto.
Ma quello che conoscendolo mi stupisce è Sylvain Bellenger. Perché? Perché addirittura quasi gli si accoda e dice che “alla parola identità preferisco, diversità, creatività, vita”. Come se lui non avesse cercato, durante tutto il suo incarico di direttore del Museo e del Real Bosco napoletano, di valorizzare Napoli, cioè la sua identità culturale e il suo significato simbolico. Come se non si fosse accorto che, se Napoli ha sempre saputo accogliere e dare voce all'arte e ad artisti diversi, è perché li comprende.
E li comprende perché le origini culturali di Napoli sono le origini dell'Umanità stessa e l'Umanità accoglie tutto ciò che la riguarda: Homo sum humani nihil a me alienum puto.
Ora parliamo d'un altro argomento... Ma prima consideriamo il fatto che Bellenger ha sempre cercato di far comprendere, o almeno suggerire, che cosa sia un'opera d'arte. “Bisogna - diceva - che si stia almeno per un minuto ad osservarla”.
L'intenzione di comunicare il valore artistico delle opere del suo museo è testimoniato anche da altre due sue iniziative, ancora in corso: l'una è “L'opera si racconta”, che mostra un'opera con un corredo di documenti che ne rendono più evidente il significato (in questi giorni a Capodimonte ce ne è un esempio: la singolare, vitalissima edizione, opera di Cecily Brown (1969), de “Il trionfo della Morte”, e l'altra è “Incontri sensibili”, che accosta tra loro due opere di un diverso periodo storico, esaltandone la diversità.
Ma ora l'impegno del Direttore è cambiato: non consiste soltanto nell'educare all'arte ma è prioritario rendere fruibile a un pubblico sempre più vasto le opere del Museo e lo si faccia attraverso la loro digitalizzazione. Il progetto risale aquando fu definito (2017) il Masterplan, il Piano Generale, in cui si prospettava la digitalizzazione delle opere del Museo dii Capodimonte, mentre si disegnavano altri tre ambiti di interventi: nel sociale, nel patrimonio e la tutela e, infine, nella botanica e l’ambiente.
Un programma finanziato regolarmente, sebbene il carico fosse molto gravoso. I tempi saranno lunghi c'è ancora molto da fare e finora solo una parte del patrimonio museale è stato digitalizzato. Ogni opera catalogata viene ripresa con una fotografia ad alta definizione che serve a difenderla dai furti e dal plagio. Mentre queste opere si potranno studiare e ammirare, senza muoversi da casa, sul proprio computer.
Ma in un contesto completamente cambiato dal luogo dove sono nate. Certo anche quasi tutte le opere museali sono state spostate, magari molto spesso provengono da qualche chiesa o da una nobile casa. Ma il mondo in cui si trovano adesso è il mondo digitalizzato: è un mondo diverso un mondo altro, dove anche noi ci vogliono portare.
Immaginiamo, allora, in un futuro che già è iniziato, il fruitore che sta da solo davanti al suo computer e gioca magari, variando le proporzioni di un'opera d'arte, ingrandendola o rimpicciolendola come è già da tempo successo: di arte che cosa ne rimane? Qualche anno fa, all'Archeologico napoletano, c'era in mostra una bellissima testa antica. Ma nessuno la guardava, mentre ci si divertiva a far girare, con un bastoncino mosso per aria, il suo ologramma, senza nessun riguardo, senza nulla sapere, nulla capire.
Certo la digitalizzazione serve anche a informare dell'esistenza di ciò che non si sa nemmeno che esista. Ma l'informazione basta alla comprensione?
Thomas Eliot (1888/1965), poeta, e saggista, drammaturgo, premio Nobel 1948, ha detto, (traduco dall'inglese approssimativamente): “dove è andata a finire la saggezza sopraffatta dalla conoscenza? dove è andata a finire la conoscenza sopraffatta dall’informazione?”.
(illustrazione “Calembours fabuleux” La Galerie Espèces d’Espaces 2014 , Parigi - Chiara Spagnoli Gabardi, Casinò Royale)