di Adriana Dragoni
Dribblando la trita campagna denigratoria sull'ex capitale del Sud, si può dire che il tema Napoli suscita notevole interesse sia in televisione, che nel cinema come in teatro. Non possiamo definirla una moda dunque. Perché non sembravano suggerite da una moda la lunghissima trasmissione TV su Rai 1 di Alberto Angela “Stanotte a Napoli” (il 25 del mese scorso), e la mostra a Capodimonte, ideata dal direttore Sylvain Bellenger “Napoli. Napoli di lava, porcellana e musica”, chiusa dopo essere stata con successo per due anni in cartellone.
E che dire dell'esistenza, già da alcuni decenni, di una inaspettata, a tutta prima inspiegabile, rivalutazione, anche economica, dell'arte napoletana (vedi il Mattino 24/5/1989)? Evidentemente questi fatti concomitanti testimoniano che non si tratti di una moda passeggera e si accordano con la ricostruzione della storia e dell'arte napoletana sviluppatasi da alcuni decenni quasi in sordina, frutto dell'opera di studiosi appassionati più che di cattedratici universitari.
E non è senza significato che oggi venga preferito della storia napoletana un periodo in cui Napoli ha potuto più pienamente esprimere se stessa: l'appassionato realismo barocco seicentesco e la garbata sua traduzione settecentesca, non dimentica della realtà neanche nella mondanità salottiera. Infatti sembra che sia proprio dell'identità napoletana esprimere la realtà senza sovrapposizioni di schemi astratti.
Ancora oggi il realismo napoletano felicemente si afferma con un'opera corale che attrae come una calamita: il Presepio. Infatti in questi giorni a Londra ottiene molto successo la mostra (3 dicembre 2021/25 febbraio 2022), intitolata “Naples” tout court, nella prestigiosa Colnaghi art gallery. Dove troviamo l'esuberante loquacità delle opere napoletane: dello spagnolo napoletanizzato Jusepe de Ribera (1591/1652), dei napoletani Massimo Stanzione (1585/1656), Luca Giordano (1634/ 1705) due vedute di Napoli del modenese Antonio Joli e la vitalità della natura morta, pesci e crostacei, del napoletano Giuseppe Recco (1634/1695), specializzato a rendere vivissimi anche i pesci boccheggianti nell'ultimo respiro.
Ma l'opera che attrae di più i visitatori è un magnifico “presepio”, una creazione prettamente napoletana, che è diversa da tutti i presepi esistenti, perché esprime l'amore per la vita nei suoi vari aspetti, naturali e umani. Ogni elemento del presepio è carico di significati. Ad esempio, tra i personaggi c'è anche un uomo su un carro con delle botti di vino, chiamato CicciBacco, simbolo della religione pagana della Neapolis magnogreca, traslata poi nella religione cristiana.
E c'è, naturalmente, la capanna con il Bambino, la Madonna e San Giuseppe ma c'è sempre anche un'osteria con una tavolata di commensali che esprimono la felicità dello stare insieme. C'è il ricco e il povero, l'elegante e lo straccione, il giovane e il vecchio, il sano e storpio ma tutti, senza infingimenti, vengono accettati per quello che sono.
Non sono personaggi di un'epoca inventata, sono della Napoli del Settecento, come rivelano i costumi. Ma il presepe a Napoli già c'era, quando il re Carlo di Borbone (1716/1788) e sua moglie la regina Amalia si misero a forgiare con le loro mani i “pastori”, facendoli conoscere e ammirare da tutto il mondo. Oggi il presepio napoletano lo si trova un po' dovunque. Ad esempio, nel museo di Chicago, dove lo ha voluto Sylvain Bellenger, quando era un suo direttore.
E si trova in mostra permanente anche in Francia, nel Musée des Beaux Arts di Rouen. E ora a Londra, nella mostra “Naples”. Per l'occasione della mostra londinese, lo storico dell'arte Carmine Romano ha presentato un suo libro tradotto in inglese da Gordon Pole e Caroline Paganussi: “The 18 th CenturyNeapolitan Creche. A Masterpiece for Baroque Spectacle” (Napoli- Porcini 2021).
Romano, tra l'altro, aveva già pubblicato, nel 2018, “Il presepe napoletano. La collezione Accardi” (ed. Grimaldi- Napoli)) e una monografia scritta a quattro mani con Sylvain Bellenger: “The Neapolitan Creche”, pubblicato dalla Yale University Press nel 2013. Senza dubbio il “presepio” napoletano ha i suoi amatori appassionati. E si rivela un oggetto simbolico, metafora di un'umanità che, nonostante tutto, esiste e vuole esistere ancora.