di Carlo Nordio (da Il Messaggero)
Nel benemerito indirizzo di recuperare la dignità dei cittadini, la ministra della Giustizia Marta Cartabia ha fatto approvare la legge che vincola le Procure a parlare con una voce sola, a limitare comunque le interviste, e soprattutto a ribadire il principio di presunzione di innocenza degli inquisiti. Era tempo.
Il nostro sistema penale, infatti, si occupa essenzialmente di tre categorie: dell’imputato sottoposto al processo; del condannato in esecuzione della pena; e delle vittime da risarcire. Ne è sempre rimasto fuori il malcapitato, iscritto per anni nel libro degli indagati, che nel frattempo è stato massacrato dalle insinuazioni, vilipeso dalla stampa e, se ricopre cariche politiche, emarginato dai colleghi, soprattutto se amici.
In realtà una legge simile esisteva già, e devolveva ai soli capi delle Procure, o ai loro aggiunti, la potestà di conferire con i mezzi di comunicazione. Ma poiché era stata ripetutamente violata, e per di più da coloro che l’avrebbero dovuta garantire, governo e parlamento hanno sentito la necessità di ribadirla e integrarla. È un altro piccolo passo verso il recupero della civiltà giuridica. Ma il cammino è ancora lungo.
Per capirlo, occorre ricostruire i rapporti tra stampa e magistratura degli ultimi trent’anni. Fino agli anni ‘90, era un rigorismo formale mitigato dalla convenienza pragmatica. In teoria il segreto istruttorio vincolava i magistrati al più stretto riserbo. In pratica, un po’ per rassicurare i cittadini sull’efficienza dello Stato nel reprimere la criminalità, un po’ per vanità personale, e un po’ per evitare che i giornalisti lavorassero di fantasia, si era concluso un gentlemen’s agreement più o meno di questo tenore: i Pm raccontavano ai giornalisti le novità, raccomandavano cautela, suggerivano commenti, e controllavano le pubblicazioni.
Questa elastica interpretazione della norma era compensata anche da un altro fattore: la par condicio tra i cronisti giudiziari. Nel senso che il Pm titolare di un’indagine intratteneva amabilmente tutti i rappresentanti delle varie testate. Poi ognuno scriveva quello che gli sembrava più succoso, o più aderente alla linea del proprio giornale. Tutto questo è cambiato con tangentopoli e mani pulite. La degenerazione ha assunto due aspetti tanto intollerabili quanto disgustosi.
Il primo è stato il rapporto privilegiato tra inquirenti e cronisti. I primi hanno scelto tra i secondi quelli più disponibili, più utili e più acquiescenti, consegnando loro, o consentendo che fossero loro consegnati, atti segreti: testimonianze, informazioni di garanzia , e naturalmente le consuete intercettazioni. Il patto scellerato prevedeva che in cambio la figura di queste toghe venisse esaltata e beatificata così da aumentarne il consenso e il prestigio, magari aprendo la strada a una buona candidatura politica.
Il secondo aspetto deplorevole è stata la selezione delle notizie. Il principio che il giornalista, e la stampa in genere, fossero liberi, era infatti diventato un’illusoria finzione. Perché le redazioni ricevevano quel tanto che il sapiente divulgatore voleva che ricevessero, pilotando così il lettore verso un’ interpretazione ingannevole. Nel caso delle intercettazioni, ad esempio, venivano passate - o si consentiva che venissero passate - quelle parti che facevano comodo agli investigatori, mentre le altre venivano tagliate o tenute segrete.
È singolare che molti cronisti non abbiano mai rilevato che in tal modo diventavano i servi sciocchi di interessati manipolatori. Ma in realtà faceva comodo anche a loro, perché comunque lo scoop era assicurato. Così la tanto esaltata libertà di stampa si convertiva in complicità nella più funesta disinformazione.
Giustamente, e con la solita genialità dei suoi paradossi, Marco Pannella disse che il segreto istruttorio andava abolito, e che tutti avevano il diritto di pubblicare tutto e di leggere tutto. Almeno si sarebbe attuata una uguaglianza di fatto. Ora la nuova legge fissa, come abbiamo detto, nuovi e opportuni paletti.
Ma servirà a poco, se non cambierà la cultura dei Pm , la loro sensibilità garantista, e soprattutto il controllo sul loro operato. Perché il Pm continuerà a mantenere strumenti potenti e insidiosi per aggredire il cittadino, compromettendone l’onore e magari la funzione. È sufficiente che non eserciti la dovuta vigilanza sulle infinite intercettazioni che ha acquisto, oppure che depositi, a suo insindacabile arbitrio, conversazioni o documenti che con l’indagine non c’entrano nulla.
Il caso Renzi insegna. Ecco perché a questi primi passi dovranno seguirne altri, vincolando il Pm titolare dell’indagine alla responsabilità oggettiva della tutela del segreto. Se questo trapela, lui deve renderne conto, e se si rivela disattento o inabile deve cambiare mestiere.
Vasto programma, direbbe de Gaulle. Certo. Ma un programma che ci riporterebbe ai livelli minimi delle civiltà giuridica che abbiamo da tempo abbandonato.
(da Il Messaggero)